Se muoversi verso la sostenibilità è l’unica alternativa all’autodistruzione.
Sono nata nel 1988. Quando il boom economico ha iniziato ad allargare le
maglie e far intravedere i collegamenti fra mafia e politica, quando la DC la
faceva ancora da padrona, quando Bertolucci vinceva 9 oscar per "L’ultimo
imperatore", quando si condannavano gli esecutori della strage di Bologna
senza far luce sui mandanti, quando veniva ucciso Mauro Rostagno, e andava in
onda la prima puntata di Striscia la Notizia. Alla vigilia del mio primo anno
di vita cadeva il muro di Berlino: il mondo in cui io, e tutta la mia
generazione, abbiamo mosso i primi passi mutava alla velocità del pensiero.
Quando ho iniziato la scuola la preoccupazione maggiore per farci stare al
passo con i tempi era insegnarci ad usare i computer, nuovo strumento dal
potenziale immenso che presto sarebbe diventato una presenza costante in tutte
le case, come la lavatrice.
La televisione ci creava ogni giorno nuove necessità in una scorpacciata
bulimica di nuovi giochi, merendine, videogames, caramelle e bibite. Volevano
che la nostra generazione pensasse a crescere, in tutti i sensi.
Contemporaneamente però iniziavamo ad avere i primi compagni di classe
stranieri, in fuga dalla Bosnia martoriata dalla guerra civile, e a scoprire
che il mondo non andava alla stessa velocità ovunque. In mezzo ci sono stati
l’11 settembre, il movimento no global smembrato dal G8 di Genova, le
manifestazioni contro la guerra in Iraq e Afghanistan, i movimenti alternativi
che diventavano virali, i mezzi di comunicazione in piena rivoluzione. Non si faceva la raccolta differenziata. Non ci insegnavano il riuso, il
riciclo, le conseguenze dell’inquinamento, dei consumi smodati.
Quando finalmente abbiamo raggiunto l’età per votare la consapevolezza ha
iniziato a farsi strada nelle menti dei più attenti: quanto costava tutta
questa crescita? Chi e cosa stavamo fagocitando insieme all’illusione del boom
infinito della società occidentale? Televisione e internet offrivano come un
fast food aperto 24h su 24 tutte le orribili pietanze delle carestie, della
devastazione dell’ambiente, delle foreste che cadevano fra le fiamme
dell’industria. Nel 2009 una crisi, ben lontana da quella che a livello sociale
e morale stava attanagliando il mondo da decenni, si è palesata a noi
dell’emisfero Nord sotto forma di crisi economica.
Da allora, il principale obbiettivo di tutte le politiche pubbliche
dei paesi del primo mondo è l’uscita dalla Crisi, scritta maiuscola, come se
fosse diventata un mostro mitologico a sette teste che tutto divora. A noi
giovani cittadini hanno continuato a dire che bisogna spingere l’economia,
consumare, consumare consumare.
Ma che cosa stiamo consumando nel modello che ha contraddistinto
l’occidente del dopoguerra? Quel fuoco di paglia che l’Europa brucia dalla
seconda rivoluzione industriale non è ripetibile nel mondo, non di certo
con un numero crescente d’esseri umani. Le risorse che permisero l’ascesa
dell’Europa non sono a disposizione all'infinito : l'uso sconsiderato di
combustibili fossili destabilizza il clima e le riserve vanno esaurendosi. La
tragedia poi, sta nel fatto che l’immaginario dei Paesi emergenti s’ispira alla
civiltà Euroatlantica, ma i mezzi per la sua realizzazione non sono più a
disposizione. In questo panorama, assai desolante per la nostra generazione e
per le prossime ed assai vergognoso per le precedenti, alla spinta alla
crescita ad ogni costo si contrappongono nuove idee di crescita sostenibile,
decrescita e transizione verso nuovi sistemi economici, sociali, e
produttivi.
Potrei usare queste righe per cercare di convincere qualcuno a cambiare
rotta spaventandolo con i numeri della devastazione che l’attuale sistema sta
causando, quanti metri cubi di gas nocivi, quanti animali estinti, quanti
bambini muoiono di fame, quanti anni ci restano prima di andare in guerra per
l’acqua. Potrei usarle per far notare quello che la politica non sta facendo e
puntare il dito contro i potenti. Ma credo che una rivoluzione, se mai potrà
esserci, arriverà dal basso, da questa società civile in fermento che nella
quotidianità sta trovando nuove alternative alla crescita autodistruttiva che
ci propongono. Allora le userò per raccontare qualcosa di nuovo, che non c’era
nel mondo in cui sono nata ma potrebbe cambiare quello in cui cresceranno i
miei figli, perchè forse basta davvero poco per fare la rivoluzione: forse
basta la consapevolezza, la conoscenza di tutte quelle realtà che il mondo lo
stanno già cambiando.
Perché c’è chi è salito un gradino più in su e riesce a guardare un po’ più
lontano: sono i protagonisti delle transition
towns, delle aziende collettive, del commons collaborativo. Sono quelli che piantano un orto nelle aiuole di Londra, sui tetti di New
Tork, che viaggiano con il couchsurfing e il carsharing, che tengono e frequentano i
massive open online courses , che aprono le panetterie sociali di quartiere,
che fanno internet delle cose, delle informazioni dell’energia. Nelle
Transition Towns, realtà cooperative sparse in decine di paesi, collettività e
creatività sono protagoniste: a Londra il movimento di Rob
Hopkins ha messo in piedi orti cittadini, in cui ognuno può
raccogliere e consumare il cibo prodotto, in giardini abbandonati, fermate dei
bus, perfino gallerie della metro. In questo modello “locale” è sinonimo di
ecologico, economico, accessibile: i negozi di alimentari, i forni, i
fruttivendoli: sono frutto di investimenti collettivi non solo di capitali ma
anche di conoscenze e competenze.
C’è un’intera economia che aspetta di essere scoperta: con gli orti
privati, i rooftops gardens sui tetti dei palazzi, gli orti collettivi, i
collegamenti con gli agricoltori suburbani circa l’80% del cibo di cui
necessitano le città potrebbe essere prodotto entro i loro confini . Ciò
significa, meno spese per l’importazione, meno inquinamento, meno sprechi, più
lavoro su scala locale, più giustizia sociale. Tutto questo può
partire dal pomodoro che domani potremmo decidere di piantare in un
appezzamento abbandonato delle nostre città. Il concetto di fare rete in queste
comunità parte sin dalle idee: ogni progetto prende vita da un incontro che
mette in comunicazione chi ha le idee con potenziali investitori, ma
soprattutto con le comunità locali, i cui membri possono scegliere di
investire, anche con l’aiuto pratico, non solo con i soldi.
Così può succedere che facendo da baby sitter si contribuisca allo
sviluppo urbanistico che porta vecchie fabbriche abbandonate a diventare
birrifici ecologici, orti idroponici e realtà produttive a basso impatto
ambientale che creano decine di posti di lavoro. I consumatori, diventano in
prima persona anche produttori, abbattendo i costi marginali di produzione di
beni e servizi e rendendoli liberi dalle logiche di mercato. Questi
“prosumers” generano e condividono su scala paritaria informazioni, competenze,
ma anche case, automobili, giocattoli, vestiti, rendendo il capitale sociale
spendibile come quello finanziario.
Ci hanno abituati a credere che se la sostenibilità dovesse soppiantare il
consumismo e la libertà di accesso prevalere sulla proprietà dovremmo fare
grandi rinunce. Non è vero. Non è vero che in una prospettiva più collaborativa
e meno consumista dovremmo rinunciare alla tecnologia, ai viaggi, alla conoscenza
alle comodità per tornare tutti a zappare la terra. Di fatto il costo reale di
una telefonata o di una connessione a internet è prossimo allo zero.
Di fatto esperienze come il couchsurfing, in cui si scambia ospitalità con
altri viaggiatori per girare il mondo, il car sharing e lo scambio di
appartamenti, ci dimostrano che si può scoprire il mondo spendendo poco ed
inquinando meno. Di fatto attraverso i Massive Online Open Courses, si possono
frequentare corsi online ad un livello spesso più alto di quello di molte
università con costi quasi nulli. Di fatto da investimenti collettivi sono nate
comunità che producono e vendono la propria energia elettrica in maniera del
tutto ecologica, ed economica. Di fatto i giovani imprenditori stanno imparando
ad aggirare lo strapotere dell’establishment bancario attraverso il crowfounding ,
per finanziare progetti sensibili in una nuova economia che funziona
anche con monete alternative.
Ci sono persone “comuni” che ci stanno dimostrando che un altro modo di
vivere, più empatico ,sostenibile e collaborativo non solo è possibile, ma è a
portata di mano.
Non spetta ai potenti muoversi in questa direzione, spetta a noi. Non fra
un anno, non fra un mese, non domani. Oggi. E chi crede che non sia possibile,
come diceva il caro Albert Einstein , non dovrebbe disturbare chi ce
la sta facendo.