Dal sapere al saper fare
Belle idee, la transizione, la
decrescita, l’autoproduzione, gli orti urbani e le permaculture. Bellissime
idee. Mi entusiasmano. Sono probabilmente i pilastri della nuova (e verosimilmente
unica possibile) rivoluzione culturale ed economica attraverso la quale si
possa arrivare ad un futuro più equo, sostenibile, basato sulla tutela dei
diritti di ogni cittadino del pianeta e sulla tutela dell’ambiente. In proposito si sono scritti libri, girati
film e documentari, per portare avanti questa “rEvoluzione” sono nati
movimenti, associazioni, riviste. Fin dagli anni ’70. Entusiasmante no? L’idea
di un mondo in cui la produzione di beni e alimenti avviene riducendo al minimo
inquinamento, scarti, esuberi, in cui il cibo c’è, per tutti, in cui non
dovremmo preoccuparci di andare in guerra per l’acqua, della desertificazione,
del buco nell’ozono. Fantastico. Dopo
aver letto libri di economisti e sociologi, dopo aver seguito conferenze,
guardato documentari, aver preparato il fagotto per l’imminente partenza per la
Transition Town più vicina,a mi sono accorta di una fatale falla nel mio piano:
non so piantare una carota. Non so coltivare delle patate. Non so mietere il
grano. Non so issare i tralicci delle viti. Non so mungere una mucca, tantomeno
una capra. Non ho idea di come salvare una pianta di pomodoro dai parassiti.
Non so attaccare un bottone, figuriamoci cucirmi i vestiti. Non sono in grado
di costruire un muretto, scavare un pozzo, manco una casetta sull’albero. A raccogliere le uova delle mie galline me la
cavo abbastanza bene, ma in quel caso, siamo sinceri, il lavoro lo fanno tutto
loro.
Un forest garden in permacultura |
So un sacco di cose, la
differenza fra equità ed uguaglianza, cosa siano i commons collaborativi, chi
sono i prosumers. Potrei citare quasi a memoria le battute dei film di Al Gore
e delle conferenze di Rifkin. Ma non so fare praticamente nulla. Panico. Quale
potrebbe essere la mia utilità in una città, in una comunità, basata sull’autoproduzione,
sull’agricoltura sostenibile, su un modello produttivo di altri tempi? Fossi
che so, un medico, un dentista, un’ingegnera.
Invece sono solo una (quasi) sociologa e mi sento sempre più in piedi
sul traballante sgabello di chi predica bene ma razzola male.
Dopo qualche ricerca la risposta
al mio senso di inadeguatezza sembra essere arrivata dal Movimento Per laDecrescita Felice, e dallo straordinario esperimento dell' Università del SaperFare. I corsi di questa particolare facoltà che si svolgono nelle varie sedi
del Movimento in tutta Italia, si basano sul recupero di capacità pratiche
andate perdute negli ultimi decenni, dalla gestione di colture, alla
calzoleria, passando per la produzione di cosmetici naturali e detersivi
vegetali. “Il Saper Fare è una sorta di rivoluzione culturale- spiegano
sul sito del movimento- che presenta una quantità incalcolabile di
vantaggi: permette di recuperare capacità e utilità perdute, di accedere a
beni primari limitando acquisti e spostamenti, di inquinare meno e
risparmiare molto, e di sperimentare una nuova dimensione entro la quale
rivalutare il tempo e la soddisfazione del lavoro ben fatto, da
condividere in modo solidale. Zero imballaggi, meno trasporti, niente
emissioni. Se migliaia, milioni di singoli adotteranno le pratiche del Saper
Fare, inaugurando nuovi stili di vita basati sul recupero della capacità
di auto-produzione di beni e quindi riducendo la produzione
di emissioni e rifiuti, l’impatto di questa pratica diverrà in breve tempo
molto significativo anche su scala globale.” Sul sito del Movimento per la Decrescita
Felice si trovano, oltre al calendario dei corsi pratici in giro per l’Italia,
decine di link utili per iniziare l’avvicinamento al knitting, all’autoproduzione
di cosmetici, alla preparazione del pane, agli orti e alle fattorie urbane,
alla produzione di formaggi e yogurt e molto altro. Le applicazioni delle
tecniche sono infinite e ognuno può contribuire realizzando nuovi corsi, purchè
questi siano in linea con il manifesto dell’associazione.
Oggi, in un momento in qui la
disoccupazione è dilagante e il sistema industriale è vicino alla saturazione,affinare
alcune abilità pratiche, spesso considerate “di bassa leva” o poco
interessanti, potrebbe rivelarsi un ottimo escamotage lavorativo, oltre che
etico, per trovare il proprio posto in un’economia nuova in cui i capisaldi del
capitalismo occidentale iniziano a vacillare.
Mentre affilavo i ferri da calza
e rispolveravo la zangola dalla cantina però ,fortunatamente mi sono balzate agli
occhi altre due considerazioni. La prima: per uscire dall’attuale crisi occorre
un radicale cambio di paradigma culturale: non possiamo pensare di risolvere i
problemi originati dal vecchio paradigma
senza adottare nuovi strumenti mentali oltre che pratici e nuove categorie di
pensiero, oltre che di azione. La necessità di occupazione in attività
oggettivamente utili (nel settore dell’agricoltura biologica, del risparmio
energetico, del recupero di materiali, della produzione di energia da fonti
rinnovabili) che producono beni, e non
merci,che soddisfano bisogni primari ed essenziali, che riducono
il consumo di risorse non può essere soddisfatta senza nuove politiche
economiche industriali, e non può esserci una nuova politica senza una nuova
società. Allora, è necessario che al fianco delle abilità manuali sviluppiamo
anche le nostre abilità intellettive ed interiori: la nostra conoscenza, la
nostra empatia, la nostra percezione di noi stessi come parte di un sistema dal
quale dipendiamo e che dipende da noi. Allora non è inutile leggere,scrivere,
documentarsi, conoscere persone, seguire conferenze , partecipare a movimenti,
non è inutile prendersi del tempo per pensare oltre che per agire, per far
crescere gli ideali assieme alle idee. La seconda parte del mio infallibile
piano è passata da una consapevolezza ancora più semplice: serve davvero che
guardi un video su Youtube per capire come piantare della lattuga? Molti di noi
hanno la fortuna di avere genitori e nonni, zii e conoscenti che hanno ancora
ben presenti i tempi in cui il saper fare era la norma. Così, prima di partire
per Lucca per imparare a piantare un oliveto ho deciso di chiedere a mio padre
di insegnarmi a zappare l’orto, a piantare i pomodori, a potare le viti, e a
mia madre di insegnarmi a rammendare un calzino e a cucinare alla vecchia
maniera.
Probabilmente a fine giornata avrò qualche
dolorino alla schiena e un paio di
punture di spillo sulle dita ma mi sentirò più vicina in maniera coerente alla
mia idea di rivoluzione.
E ora scusatemi, vi saluto perché ho il pane
in forno,devo dare l’acqua ai pomodori, le galline sono da governare, devo scaricare l’ultima
conferenza di Rob Hopkins e il libro sull’autoconsapevolezza che ho iniziato mi
aspetta sul bracciolo della poltrona!