Mauro Cereghini è il terzo intervistato eccellente di “operazione cooperazione”. Discutere con lui di sviluppo e cooperazione internazionale è stata una fonte di spunti e riflessione che sono felice di condividere con voi. Per esempio, a cosa pensate se leggete di “animatori di comunità”? Se pensate ad un villaggio turistico e al karaoke questa intervista vi interesserà.
Cereghini attivista, ricercatore e formatore sui temi della mediazione e della cooperazione internazionale, in particolare nell’area balcanica, ha lavorato all’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace di Rovereto e alla Fondazione Alexander Langer di Bolzano, è stato direttore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso e della Cooperativa Unimondo. Attualmente è presidente del Centro per laFormazione alla Solidarietà Internazionale di Trento, organizzazione impegnata a migliorare la conoscenza e le abilità di chi è coinvolto nella cooperazione internazionale.
Cooperazione sviluppo
e solidarietà, cosa significano?
Le parole sono importanti, è giusto fare attenzione, ma a
volte sono un gioco e bisogna capire cosa si intende. In campo internazionale
cooperazione internazionale e solidarietà internazionale sono sinonimi, che intendono
una serie di cose. Tradizionalmente la cooperazione internazionale riguardava il
rapporto con un altrove: politiche economiche, sanitarie, ambientali, e allo
sviluppo. Si intendeva quella parte legata alle politiche del cosiddetto
sviluppo. Per l’ambiguità si è cominciato a parlare di solidarietà per
intendere la cooperazione no profit. In generale poi, se si parla di
solidarietà come aiuto, io lo trovo un termine un po’ superato. Ci sono
tentativi di riformulare il concetto, come interscambio fra realtà diversamente
ricche, in una logica di interscambio più che di trasferimento.
Dal su punto di vista
i progetti nati da realtà locali dei paesi in via di sviluppo, hanno maggiori
possibilità di successo della cooperazione che “viene da fuori”?
Bisogna distinguere l’intervento di emergenza e la
cooperazione continuativa. Nel primo caso l’aiuto esterno è vitale, ma il
cambiamento in una prospettiva continuativa non possono che farlo attori
locali, con risorse locali, che possono essere incentivate anche da fattori
esterni. Posto che non sono un purista del “solo loro possono”: ogni comunità
ha le proprie problematiche e malfattori. Soprattutto in un mondo attuale lì e
qui sfumano. Si può benissimo avere un attore locale eterodiretto che è la
risorsa del progetto, così come un attore esterno che può avere competenze
utili. Sfumerei questo confine. Non esiste l’idea di trasportare il
cambiamento.
Chi sono dunque e che
scopo nel lavoro dei cooperanti?
Esistono operatori umanitari (sul campo), cooperanti e
tecnici, più presenti nell'immaginario così come ad esempio la figura del missionario.
Tutte hanno delle peculiarità e le rispetto, il testimone e il professionista: hanno
comunque caratteristiche positive e negative. Credo che una figura interessante
da sviluppare sia quella degli “animatori
di comunità”, di reti di interscambio, per così dire: persone e realtà che
sappiano essere trasformatori sociali là e qui. Se una persona non si integra
nelle dinamiche di cambiamento sociale di Trento difficilmente sarà in grado di
farlo a Quito. Mi interessa ad esempio chi si lavora nel commercio equo e
solidale internazionale e si impegna a conoscere i produttori con trasferte nei
luoghi dove lavorano pur tenendo aperta la propria bottega, magari, a Trento.
Si può fare
cooperazione internazionale anche stando a casa propria quindi?
Ci si deve muovere. E’ necessario per lavorare in questo
settore. Ma bisogna restare legati a un luogo. Anche costruire relazioni di
interscambio è cooperazione, quindi anche stare “a casa propria” può essere un
modo per fare cooperazione in un certo senso. Magari tentando prima di scoprire
quali parti di casa nostra sono già occupate dal mondo, cercando poi di
costruire uno scambio positivo con le
risorse del proprio territorio e di quello altrui.
Molti fra quelli che
lavorano in questo campo, affermano che la cooperazione non funziona quando
tutto è regalato. C’è una cooperazione che funziona meglio di un’altra?
Se non siamo in situazioni di emergenza, quando solo l’aiuto
concreto ed immediato salva. Sto parlando di emergenze vere, calamità e guerre,
non emergenze come “l’emergenza immigrazione” che non lo è. Ma se usciamo
dall’emergenza stretta è vero, gli aiuti uccidono, se intesi come solo
donazione. Sono nocivi perché sono unilaterali: è indispensabile un legame che
dia potere e responsabilità, di scelta di coinvolgimento, ad entrambe le parti.
Il solo dono mantiene il potere in chi lo concede. Si crea dipendenza,
superiorità, invasività.
Una cooperazione
allo sviluppo che funziona dovrebbe mirare a rendere obsoleta se stessa. Stiamo
andando in questa direzione?
La valutazione è diversa da Paese a Paese. Prima ancora
che pensare alla dimensione materiale della cooperazione come succede in molte
realtà, vorrei che si prestasse attenzione alle valutazioni. Che ci fossero
pensieri prima di azioni e di soldi, pensieri di cambiamento. La cooperazione
ha fatto la propria crescita culturale, per lo meno dichiara l’interesse per la
partnership e l’ownership locale. Lo scarto fra il dire e il fare c’è. Io vedo
contemporaneamente mondi fermi che ripetono l’uguale, che nominano ancora i
paesi in via di sviluppo, nord e sud del mondo, e vedo approcci più legati alla
realtà e ai dati di fatto. La direzione principale è quella dall’internazionalizzazione
come si vede dal cambio di posizione di Brasile, India e Cina, ad esempio.
E’ possibile spingere
uno sviluppo che sia sostenibile? O al momento conta più spingere l’uscita
dalle crisi umanitarie e sociali?
Intanto bisogna capire dov’è il perno della sostenibilità,
capire l’equilibrio fra sostenibilità ambientale, sociale e culturale. Non ci
sono progetti sostenibili o insostenibili tout court. Detto questo, certo bisogna
assumere un’ottica di lungo periodo. In passato ci sono stati enormi esempi di
progetti che per sostenere un aspetto ne hanno affossato un altro. In generale
più che di ricette o di modelli trasferibili bisogna parlare di scoperte,
riscoperte e unicità, territoriali e culturali. La chiave dello sviluppo resta
ambigua, perché trasformazione significa inevitabilmente acquisire qualcosa e
perdere altro. Ovvio che gli spot di sostenibilità, i marchi fair trade, equo e
sostenibile, possono essere ormai inseriti in qualsiasi tipo di progetto.
Bisogna vedere se è reale l’impegno. Sapendo che non c’è bianco o nero. Il
commercio equo e solidale lo è? Siamo in un mondo di contraddizioni, la
purezza, per fortuna, non esiste. Bisogna
saper abitare l’ambiguità. Non si tratta di risolvere un’equazione già scritta
ma di avviare progetti, di avvicinarsi all’equilibrio. In questo senso il
cooperante non può essere il singolo, perché ci si deve confrontare con una
realtà nel suo complesso: a volte è più importante il pensare a cosa si fa che
il farlo. Bisogna creare una comunità di
pensiero che si incontra, perché nessuno ha le ricette, e chi pensa di avere le
ricette, mente.