Due mesi di assenza ingiustificata, o meglio, giustificata
solo da un periodo di viaggi incontri così intenso da non lasciarmi il tempo
per scriverne.
La prima delle mirabolanti avventure estive della Bisbetica,
sono stati i Balcani.
Quei Balcani, terra d’oriente e d’occidente, quei Balcani
vicini e lontani, quei Balcani ponte e muro, quei Balcani teatro di una delle
più vergognose pagine della storia europea e mondiale degli ultimi vent’anni.
I Balcani che mi hanno emozionata, sedotta, commossa.
La Bosnia, così fiera e impegnata nel tenere il passo
europeo senza perdere la propria identità, la Croazia, attraversata in moto, con
i porticcioli turistici a fianco murales che a Split incitano ancora gli "Aiduchi".
Una realtà fitta densa, come se fosse tutto contratto, la
montagna e il mare, le zone rurali e la città, il passato recente e quello
antico, la modernità e la tradizione, il turismo e la guerra, la bellezza e
l'orrore. Mostar, e soprattutto Sarajevo, mi sono rimaste nel cuore.
A Mostar la storia bosniaca recente si è raccontata per caso,
per bocca di Edjin, un quarantenne che abitava già lì, nella stupenda città sul
fiume Narenta, durante la guerra degli anni novanta che ha visto spaccarsi la
secolare cultura multietnica bosniaca per le spinte separatiste sorbo/croate e
i clamorosi fallimenti dell’Onu. Mi ha fermata mentre fotografavo un palazzo
ancora sventrato dalla granate a pochi metri dalla via dei turisti, mentre una
madre e un figlio rom frugavano in un cassonetto a dieci metri dalla bancarella
dei selfie sticks. La pulizia etnica, la guerra voluta da pochi ma che ha
sconfitto tutti, la sua versione della storia.
I cecchini che sparavano alle donne che andavano a prendere
l'acqua, la città divisa in due dai bombardamenti, famiglie e amici messi su
due lati diversi del fronte, e poi il fosforo bianco, le schegge di granate che
lasciano cicatrici nella carne e nell'anima, l'inettitudine degli organismi
internazionali, i gruppi di violenti che hanno cambiato il destino di nazioni
intere.
Non c’è perdono nelle parole di Edjin, o meglio, c’è per i
vicini e gli amici serbi, arruolati a volte contro la loro volontà nelle
milizie, c’è per i cittadini croati, vittime anche loro di un leader spietato,
ma non c’è perdono, o possibilità di ammenda, per l’Onu, la Nato, l’Unione
Europea, i Paesi “occidentali” che sono rimasti a guardare, che hanno lasciato
proseguire per anni una guerra che sarebbe potuta durare dieci giorni.
E Sarajevo... non credo che al mondo esista un'alta città
con quell'anima. E' come se ti mettesse davanti alla storia in persona, questa
città avvolta da fantasmi e profumi, da foreste e cimiteri: le sinagoghe fianco
a fianco ai minareti, alle chiese ortodosse, ai campanili, le lapidi bianche
islamiche mescolate alle tombe cristiane negli immensi cimiteri che circondano
la città, i niquab e gli hotpants nelle vetrine, i buchi di proiettile nei muri
dei fast food,i segni delle bombe fra i banchi del Markele, la biblioteca
risorta dalle proprie ceneri come la Fenice.
E' una storia così lunga da rischiare di dimenticarne
qualche pezzo, per scelta o per semplice oblio. E' allo stesso tempo teatro di
guerre, sconfitte e sofferenze, come di speranza, e convivenza e solidarietà
fra oriente e occidente, etnie, religioni.
Fra i profumi che escono dai caffè e dalle fumerie di
Narghilè, si racconta piano piano, quasi svelandosi, giorno dopo giorno,
timidamente.
Inat Kuca e la sua storia di resistenza, la biblioteca che
non ha più paura, i mercati e i caffè, i musei e le birrerie, il quartier
generale dei serbi sulla collina. Mi hanno raccontato tutti una parte di
storia.
Un grande senso di impotenza e di ingiustizia mi ha pervasa
dopo la visita al museo storico, l'unico che dedica una "mostra"
all'assedio degli anni novanta (a parte la trappola per turisti all'uscita del
tunnel della speranza). L’edificio, ancora crivellato dai colpi di mortaio, patisce
un'evidente carenza di fondi in contrasto con uno spirito intraprendente. È difficile
da trovare e in alcuni punti fatiscente, evidente prova di una colpevole
disattenzione internazionale verso chi potrebbe raccontare una storia che punti
il faro sui fallimenti dell'Onu e della comunità internazionale al completo.
Pochi giorni dopo, ho conosciuto un sacco di ragazze e
ragazzi bosniaci, serbi, croati, kosovari, montenegrini, macedoni, che mi hanno
dimostrato ancora una volta la coesione e la voglia di riscatto e giustizia
delle nuove generazioni, ma questa è un’altra storia.
La storia che vorrei contribuire a far conoscere oggi, è quella
dei Balcani, quella di Sarajevo, non solo la loro ferita più recente, ma tutta
quella strada millenaria che li ha resi così unici e forti, così fieri e,
finalmente, senza più paura.
Ma per conoscerla, per assaggiare il vero sapore di questo racconto, ancora una volta, non vi resta altro da fare che preparare uno zaino e partire.
Livi sempre mitica!
RispondiEliminaA lotte big story☺️
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