Roberto Belloni è un professore associato dell’università di
Trento. Ma non è solo per la sua competenza accademica che ho deciso di parlare
con lui, ancora una volta, di cooperazione e società. Ero convinta che il suo
punto di vista sarebbe stato utile e interessante, non solo per le
pubblicazioni, per gli articoli e il ruolo che riveste: ma perché Roberto
Belloni prima che dietro una cattedra è stato sul campo. E’ il professore che
non ti aspetti, che è stato in Ex Jugoslavia a lavorare per la democratizzazione
quando il bubbone del conflitto etnico e della guerra civile era appena
scoppiato, quando della cooperazione si parlava appena. E la mia convinzione, a
giudicare da quest’intervista, era ben riposta.
Tanti anni a contatto
con la cooperazione internazionale, sia sul campo che come accademico, come è
cambiato il ruolo di organizzazioni internazionali e cooperanti nel corso della
sua esperienza?
Certamente nell’ultimo periodo si è avviato un processo di professionalizzazione,
accentuato negli ultimi anni. Negli anni ’90 era possibile entrare nel mondo
della cooperazione con poche competenze, mentre la figura del cooperante di
oggi mi sembra si sia progressivamente arricchita di capacità tecniche e
manageriali, oltre che organizzative, soprattutto all’estero. Per fare questo
lavoro non basta la vocazione, sapere la lingua, sapersi rapportare alle
popolazione: è necessario avere competenze, perchè il settore si è aziendalizzato
in termini sempre più manageriali. E’ tutto
molto più burocratizzato. Vent’anni fa c’era più improvvisazione, eravamo più
sprovveduti forse. Era un approccio più avventuristico, ma non necessariamente
il nuovo assetto è più valido: da un punto di vista ci sono più conoscenze,
dall’altro si è persa la creatività, l’intraprendenza individuale. C’è un trade
off fra le due cose.
A fianco ad un numero
crescente di giovani che mirano a fare della cooperazione il proprio mestiere,
crescono anche la diffidenza e le critiche verso le organizzazioni
internazionali, governative e non governative, qual è il suo punto di vista
rispetto a questa situazione a due facce?
Quella che si è diffusa, specialmente nel nostro Paese è una
visione strumentale, volta a giustificare i tagli alla cooperazione, che non
sono dovuti, come spesso si tende a pensare, al fatto che la cooperazione sia
pessima, il meccanismo è contrario: visto
che i soldi non ci sono allora viene descritta in maniera pessima (basti
pensare ai tagli al settore apportati dal governo Berlusconi). Nell’agosto 2014
c’è stata una nuova legge quadro per disciplinare gli aiuti internazionali, che
prevedeva la realizzazione di un’agenzia, mai creata. Ma quello che traspare
principalmente dalla legge è che la cooperazione interessa più che altro come
ponte di lancio per industrie italiane, come rapporto con attori privati. Per i
giovani, forse l’interesse in controtendenza con l’opinione generalizzata è
suscitato anche dalla difficile crisi economica e dalla mancanza di alternative
tradizionali.
A guardare le
reazioni della società rispetto agli ultimi eventi sembra che il ruolo di
cooperanti e corrispondenti sia sempre più visto sotto una cattiva luce, è
reamente così? Quale potrebbe essere secondo lei il motivo?
Molto dell’astio della
società mosso dalle storie personali dei cooperanti. Nel caso di Greta e
Vanessa, ad esempio, molte delle reazioni sono state mosse dal fatto che questo
è un paese conservatore: il fatto che fossero donne è sufficiente a far
accendere l’astio, anche nei giovani. Forse per i più avrebbero dovuto restare
qui, fare figli e fare le casalinghe. Vittorio Arrigoni, pur essendo di
sinistra era un uomo, e le critiche sono state più sparute.
C’è una cooperazione
giusta e una sbagliata?
In termini semplicistici:
starei lontano dalla questione preparazione (sprovvedute, o non sprovvedute,
giusto o sbagliato).Direi che ci può essere un cooperante bravissimo, dal
punto di vista tecnico, un ingegnere ad esempio, che magari non ha le
conoscenze socio politiche del posto dove lavora: anche una coop perfetta dal
punto di vista tecnico può essere inutile o dannosa.
Un esempio: una strada può essere ben costruita, ma potrebbe
essere usata da mezzi militari per peggiorare le condizioni di una parte della
popolazione in Paesi in crisi. La cooperazione “buona” tiene in considerazione
gli aspetti del contesto in cui interviene, e dei possibili impatti dell’intervento.
Quella “non buona” è quella strettamente tecnica, e c’è ancora. Agli inizi degli
anni’90 il Rwanda era un esempio di cooperazione che funzionava, perché il pil
era cresciuto dopo l’intervento internazionale, e c’era momentanea pace, e
progresso. Pochi anni dopo è stato teatro di un genocidio da un milione di
morti..
Com’è cambiato il
ruolo delle istituzioni nazionali e sovranazionali rispetto alle crisi
umanitarie? Ci sono differenze fra la guerra civile nei Balcani dei prima anni
novanta e l’attuale crisi in Siria?
Al di là dei dettagli
della situazione specifica, in realtà le differenze sono pochissime, Dai
Balcani in avanti la teoria e la pratica degli interventi è stata mossa dal
contenimento, ovvero dall’intervento palliativo locale che ha però come scopo
ultimo tutelare i paesi occidentali, contenendo le migrazioni eccessive.
L’atteggiamento di fondo è di aiuto strettamente umanitario, senza intervento
politico forte. Perché una visione politica rispetto alla soluzione non c’è. Un
intervento dei caschi blu in Siria non credo proprio ci sarà, almeno per il
momento. Manca una visione strategica.
Cooperanti e ONG,
come sono tutelati a livello nazionale?
C’è tutela formale tale per cui le ONG possono chiedere
riconoscimento, hanno quindi facoltà di presenziare come interlocutori ai
tavoli dove si decidono le gestioni delle crisi. Sull’aspetto del lavoro sul
campo ci sono più problemi, in particolare in situazioni di conflitto. I rischi
inevitabilmente ci sono, fanno parte dell’essenza stessa di questo lavoro. Le
soluzioni non sono così immediate: si può tentare di far capire ai contendenti
che non si è schierati (ad esempio come fa Emergency, con medici e personale disarmato,
che cura tutti). Un secondo approccio è assumere milizie locali (come hanno
fatto alcune ONG Italiane in Somalia) pagate. La terza è quella di affidarsi a
truppe internazionali se presenti sul territorio, lavorando a stretto contato
con loro. Il problema sta nel fatto che ci si associa all’esercito nel bene e
nel male, e il cooperante diventa un target, restringendo lo spazio umanitario.
L’Italia tutela i suoi cooperanti, ma in quanto cittadini all’estero, senza
normative dedicate.
E’ necessaria una
maggiore consapevolezza? Una maggiore informazione? Se sì secondo lei da dove
vengono queste carenze: informazione, istituzioni, istruzione?
Sì. Ci sono carenze
nel sistema dell’informazione, che tende a semplificare e non approfondisce.
Non si parla tanto di esteri, e se lo si fa lo si fa con una prospettiva
nazionale. Alcune settimane fa in Libia erano tutti pronti a intervenire, ma
pochi pronti a capire cosa stava succedendo. E su questo hanno responsabilità
politica e informazione. L’istruzione è anche molto lacunosa, ma ci sono
casi di progetti pilota nelle scuole per rendere i ragazzi più consapevoli,
anche se sospetto che le iniziative siano più individuali, mancano quelle
sistematiche.
Come e attraverso
quali canali è possibile avvicinare il pubblico a realtà come la cooperazione e
a quelle in cui la cooperazione opera?
C’è qualche canale utile. Riviste, siti: Internazionale è
uno strumento abbastanza utile, Limes, e c’è tanto in lingua inglese, il Guardian
Weekly, L’Economist, che pur da un punto di vista conservatore copre bene la politica
internazionale. E poi i siti specializzati: sul medioriente funziona molto bene
Haaretz. Ma al di là dell’offerta informativa, purtroppo nel pubblico c’è molta
pigrizia. Le notizie si consumano velocemente, senza approfondirle.
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