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domenica 11 gennaio 2015

L’insostenibile leggerezza dell’immobilismo

Se muoversi verso la sostenibilità è l’unica alternativa all’autodistruzione.


Sono nata nel 1988. Quando il boom economico ha iniziato ad allargare le maglie e far intravedere i collegamenti fra mafia e politica, quando la DC la faceva ancora da padrona, quando Bertolucci vinceva 9 oscar per "L’ultimo imperatore", quando si condannavano gli esecutori della strage di Bologna senza far luce sui mandanti, quando veniva ucciso Mauro Rostagno, e andava in onda la prima puntata di Striscia la Notizia. Alla vigilia del mio primo anno di vita cadeva il muro di Berlino: il mondo in cui io, e tutta la mia generazione, abbiamo mosso i primi passi mutava alla velocità del pensiero. Quando ho iniziato la scuola la preoccupazione maggiore per farci stare al passo con i tempi era insegnarci ad usare i computer, nuovo strumento dal potenziale immenso che presto sarebbe diventato una presenza costante in tutte le case, come la lavatrice. 

La televisione ci creava ogni giorno nuove necessità in una scorpacciata bulimica di nuovi giochi, merendine, videogames, caramelle e bibite. Volevano che la nostra generazione pensasse a crescere, in tutti i sensi. Contemporaneamente però iniziavamo ad avere i primi compagni di classe stranieri, in fuga dalla Bosnia martoriata dalla guerra civile, e a scoprire che il mondo non andava alla stessa velocità ovunque. In mezzo ci sono stati l’11 settembre, il movimento no global smembrato dal G8 di Genova, le manifestazioni contro la guerra in Iraq e Afghanistan, i movimenti alternativi che diventavano virali, i mezzi di comunicazione in piena rivoluzione. Non si faceva la raccolta differenziata. Non ci insegnavano il riuso, il riciclo, le conseguenze dell’inquinamento, dei consumi smodati. 
Quando finalmente abbiamo raggiunto l’età per votare la consapevolezza ha iniziato a farsi strada nelle menti dei più attenti: quanto costava tutta questa crescita? Chi e cosa stavamo fagocitando insieme all’illusione del boom infinito della società occidentale? Televisione e internet offrivano come un fast food aperto 24h su 24 tutte le orribili pietanze delle carestie, della devastazione dell’ambiente, delle foreste che cadevano fra le fiamme dell’industria. Nel 2009 una crisi, ben lontana da quella che a livello sociale e morale stava attanagliando il mondo da decenni, si è palesata a noi dell’emisfero Nord sotto forma di crisi economica.
 Da allora, il principale obbiettivo di tutte le politiche pubbliche dei paesi del primo mondo è l’uscita dalla Crisi, scritta maiuscola, come se fosse diventata un mostro mitologico a sette teste che tutto divora. A noi giovani cittadini hanno continuato a dire che bisogna spingere l’economia, consumare, consumare consumare. 

Ma che cosa stiamo consumando nel modello che ha contraddistinto l’occidente del dopoguerra? Quel fuoco di paglia che l’Europa brucia dalla seconda rivoluzione industriale  non è ripetibile nel mondo, non di certo con un numero crescente d’esseri umani. Le risorse  che permisero l’ascesa dell’Europa non sono a disposizione all'infinito : l'uso sconsiderato di combustibili fossili destabilizza il clima e le riserve vanno esaurendosi. La tragedia poi, sta nel fatto che l’immaginario dei Paesi emergenti s’ispira alla civiltà Euroatlantica, ma i mezzi per la sua realizzazione non sono più a disposizione. In questo panorama, assai desolante per la nostra generazione e per le prossime ed assai vergognoso per le precedenti, alla spinta alla crescita ad ogni costo si contrappongono nuove idee di crescita sostenibile, decrescita e transizione verso nuovi sistemi economici, sociali, e produttivi. 

Potrei usare queste righe per cercare di convincere qualcuno a cambiare rotta spaventandolo con i numeri della devastazione che l’attuale sistema sta causando, quanti metri cubi di gas nocivi, quanti animali estinti, quanti bambini muoiono di fame, quanti anni ci restano prima di andare in guerra per l’acqua. Potrei usarle per far notare quello che la politica non sta facendo e puntare il dito contro i potenti. Ma credo che una rivoluzione, se mai potrà esserci, arriverà dal basso, da questa società civile in fermento che nella quotidianità sta trovando nuove alternative alla crescita autodistruttiva che ci propongono. Allora le userò per raccontare qualcosa di nuovo, che non c’era nel mondo in cui sono nata ma potrebbe cambiare quello in cui cresceranno i miei figli, perchè forse basta davvero poco per fare la rivoluzione: forse basta la consapevolezza, la conoscenza di tutte quelle realtà che il mondo lo stanno già cambiando. 
Perché c’è chi è salito un gradino più in su e riesce a guardare un po’ più lontano: sono i protagonisti delle transition towns, delle aziende collettive, del commons collaborativo. Sono quelli che piantano un orto nelle aiuole di Londra, sui tetti di New Tork, che viaggiano con il couchsurfing e il carsharing, che tengono e  frequentano i massive open online courses , che aprono le panetterie sociali di quartiere, che fanno internet delle cose, delle informazioni dell’energia. Nelle Transition Towns, realtà cooperative sparse in decine di paesi, collettività e creatività sono protagoniste: a Londra  il movimento di Rob Hopkins ha messo in piedi orti cittadini, in cui ognuno può raccogliere e consumare il cibo prodotto, in giardini abbandonati, fermate dei bus, perfino gallerie della metro. In questo modello “locale” è sinonimo di ecologico, economico, accessibile: i negozi di alimentari, i forni, i fruttivendoli: sono frutto di investimenti collettivi non solo di capitali ma anche di conoscenze e competenze. 

C’è un’intera economia che aspetta di essere scoperta: con gli orti privati, i rooftops gardens sui tetti dei palazzi, gli orti collettivi, i collegamenti con gli agricoltori suburbani circa l’80% del cibo di cui necessitano le città potrebbe essere prodotto entro i loro confini . Ciò significa, meno spese per l’importazione, meno inquinamento, meno sprechi, più lavoro su scala locale, più giustizia sociale.  Tutto questo può partire dal pomodoro che domani potremmo decidere di piantare in un appezzamento abbandonato delle nostre città. Il concetto di fare rete in queste comunità parte sin dalle idee: ogni progetto prende vita da un incontro che mette in comunicazione chi ha le idee con potenziali investitori, ma soprattutto con le comunità locali, i cui membri possono scegliere di investire, anche con l’aiuto pratico, non solo con i soldi.
 Così può succedere che facendo da baby sitter si contribuisca allo sviluppo urbanistico che porta vecchie fabbriche abbandonate a diventare birrifici ecologici, orti idroponici e realtà produttive a basso impatto ambientale che creano decine di posti di lavoro. I consumatori, diventano in prima persona anche produttori, abbattendo i costi marginali di produzione di beni e servizi e rendendoli liberi dalle logiche di mercato.  Questi “prosumers” generano e condividono su scala paritaria informazioni, competenze, ma anche case, automobili, giocattoli, vestiti, rendendo il capitale sociale spendibile come quello finanziario. 

Ci hanno abituati a credere che se la sostenibilità dovesse soppiantare il consumismo e la libertà di accesso prevalere sulla proprietà dovremmo fare grandi rinunce. Non è vero. Non è vero che in una prospettiva più collaborativa e meno consumista dovremmo rinunciare alla tecnologia, ai viaggi, alla conoscenza alle comodità per tornare tutti a zappare la terra. Di fatto il costo reale di una telefonata o di una connessione a internet è prossimo allo zero. 
Di fatto esperienze come il couchsurfing, in cui si scambia ospitalità con altri viaggiatori per girare il mondo, il car sharing e lo scambio di appartamenti, ci dimostrano che si può scoprire il mondo spendendo poco ed inquinando meno. Di fatto attraverso i Massive Online Open Courses, si possono frequentare corsi online ad un livello spesso più alto di quello di molte università con costi quasi nulli. Di fatto da investimenti collettivi sono nate comunità che producono e vendono la propria energia elettrica in maniera del tutto ecologica, ed economica. Di fatto i giovani imprenditori stanno imparando ad aggirare lo strapotere dell’establishment bancario attraverso il crowfounding , per finanziare progetti  sensibili in una nuova economia che funziona anche con monete alternative. 
Ci sono persone “comuni” che ci stanno dimostrando che un altro modo di vivere, più empatico ,sostenibile e collaborativo non solo è possibile, ma è a portata di mano. 

Non spetta ai potenti muoversi in questa direzione, spetta a noi. Non fra un anno, non fra un mese, non domani. Oggi. E chi crede che non sia possibile, come diceva il caro Albert  Einstein , non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo.