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giovedì 11 giugno 2015

Social Menti Utili

Genialate e idiozie da social network.

Ogni grande rivoluzione tecnologica e sociale è stata preceduta da una grande rivoluzione di comunicazione. Senza i collegamenti transatlantici, il telegrafo, il telefono le rivoluzioni industriali, i boom economici e democratici dell’ultimo secolo e mezzo, perfino le guerre, sarebbero andate diversamente.
Se non avessimo mai visto le foto dai campi di concentramento, la seconda guerra mondiale sarebbe andata nello stesso modo? Magari no, magari vivremmo in un mondo come quello ipotizzato ne “La svastica sul sole” più di 50 anni fa.

Comunicare, condividere non solo è parte del nostro essere animali e umani, ma è un elemento imprescindibile della nostra società e della sua evoluzione.
Ma vi confesso che negli ultimi tempi a giudicare dalle nuove forme di comunicazione mi sto convincendo sempre più che andiamo verso una rivoluzione di idioti, creduloni e fanfaroni.


Vi descrivo la scena che mi ha fatto precipitare definitivamente in questa convinzione:
Interno, giorno, La BisbEtica naviga su Facebook cercando una scusa per non studiare inviando oziosamente inviti ad uno spettacolo di Ascanio Celestini.
Sulla bacheca appare, ben 2 volte, il post del secolo: foto di repertorio di bambini, somali credo, che tendono le braccine scheletriche verso del cibo, con costole a vista e visi disperati, nella cornice nera del post auto prodotto con la frase: Facebook donerà 1 euro per ogni condivisione per sfamare questi poveri bambini.
Millemila condivisioni.
Davvero? Il mio amico Emiliano mi perdonerà se uso la sua parola feticcio ma, davvero?
Davvero ci credete che condividendo una foto, che per altro è del 1991 (quei bambini se sono stati sfamati adesso sono ultratrentenni e altrimenti direi che è troppo tardi), questa fantomatica entità sovrumana chiamata FEISBUC donerà dei soldi a degli imprecisati bambini africani affamati?
Per carità, in Africa i bambini, e gli adulti, che muoiono di fame ci sono ancora, davvero: sono gli stessi che annegano sui barconi che attraversano il Mediterraneo, sono gli stessi che vengono qui a “rubarci il lavoro”, sono proprio lì, su quelle carrette del mare che la Meloni vuole bombardare.
Ci sono bambini che muoiono di fame e malnutrizione anche in Asia, Nel centro e sud America, nell’est Europa, nelle periferie delle grandi città.
Sono lì, non in quella foto.
Credete davvero che i chirurghi aspettino in sala operatoria di vedere salire i like sotto la foto di un bambino ritratto in primo piano con la cannula dell’ossigeno per iniziare a operarlo?

Da questo momento di estrema dimostrazione del fallimento del darwinismo sono partite alcune elucubrazioni: quand’è che l’utilità di questo nuovo e fantasmagorico strumento dell’internet si è trasformata in un megafono per cretini?
C’è qualcosa di molto sbagliato in come si stanno evolvendo le comunicazioni sui social: migliaia di persone che vomitano la loro vita privata in bacheca, anoressiche che postano le foto dei loro pranzi da McDonald’s, Marie Goretti che a mezzanotte letto, coperta, camomilla che hanno la bacheca intasata di foto di cocktailoni in primo piano, personaggi incapaci di distinguere la congiunzione disgiuntiva “o” dalla voce del verbo avere “ho” che pontificano sull’italianità, centinaia di foto identiche di gente che corre mentre gli spruzzano addosso del colore.
Il problema, vero, è che io di queste cose ne parli e ne scriva. Che veda più spesso i post che ci mettono in guardia dalle arance infettate col virus HIV che vengono dalla Libia, le Bufaline, che quelli che mettono in guardia sul surriscaldamento globale, dicesi signor Reale.
Che abbia la bacheca intasata da re-post di Salvini, nonostante il mio minuzioso e continuo lavoro di pulizia della friends list, più che da quelli di Gino Strada.
A dire il vero il dramma è che io, come tutti voi, per comunicare usi termini come post, re post, like, e friends list.
Mi fa rabbia che il tempo, tantissimo, che passiamo sui social network, si riempia di bufale colossali pompate da inguaribili creduloni, su morti di personaggi più o meno famosi, sull’UE che vieta di coltivare l’orto in casa, sulle scie chimiche, che le notizie non servano per tenere informata la società ma siano impostate ad arte per scatenare i leoni da tastiera in centinaia di commenti aggressivi, sgrammaticati, inutili.

Avete la soluzione per tutto? Per l’immigrazione, per la crisi, per le aggressioni dell’orso, per i matrimoni gay, per curare il cancro con il bicarbonato?
Datevi da fare, entrate in politica, aprite una clinica di cure a base di cremine antiage che tolgono 90 anni di rughe in 90 secondi, polverine per dimagrire, frullati di proteine per scolpire, e mi raccomando, tutto questo continuando a dire che omeopatia e fitoterapia sono “robe da coglioni”.

Mentre mi stavo slogando Atlante e Epistrofeo a forza di scuotere la testa in segno di disgusto però, forse per il movimento della mia materia grigia in tutto quello spazio vuoto, ho avuto la vera illuminazione.
Non dovrei essere lì, a leggere le bufale, a deprimermi per il QI medio dei miei connazionali, ad augurare iettature a certi idioti.
Perché questi strumenti, internet, social, e quant’altro, sono sì i grandi veicoli della rivoluzione del nostro tempo, ma sono pilotati, male, e con i soliti sistemi, tutt’altro che rivoluzionari.
La “gratuità” delle ricerche su Google, dei nostri diari su Facebook, delle nostre belle foto su Instagram la paghiamo con le nostre informazioni, e spesso con la nostra libertà.

Credete davvero che la visibilità di eventi, personaggi, notizie, dipenda dal loro valore? Col cavolo. Dipende da un misterioso algoritmo che sostanzialmente funziona in un modo solo: paga, e fa ciò che vuoi.
Bello questo concerto con 8000 partecipanti: paga e fa ciò che vuoi.
Interessante questo post con 1500 like: paga e fa ciò che vuoi.
Che seguito questo personaggio, 30.000 follower: paga, e fa ciò che vuoi.
E questo meccanismo contagia, giornali, radio, televisione, siti di informazione.
E allora che ci faccio qui, su un blog a scrivere un post che finirà poi su un social network?
Perché credo che siano le persone a decidere come usare le cose, e non il contrario.
Questi strumenti, che sono solo questo, strumenti, come una forchetta, un’accetta, una pala, possono essere usati nel male, o nel bene. Sono io che decido se usare la forchetta per papparmi una fiorentina o un’insalata, non è la forchetta che è vegetariana, sono io che decido se usare l’accetta per uccidere mia moglie e la pala per far sparire il corpo, o di farne strumenti per costruire la casetta sull’albero dei miei figli.
Sono io che posso decidere di usare internet, i social network , questo potentissimo strumento per fare informazione vera invece che per diffonder bufale, per creare una rete di economia collaborativa invece che un network marketing, di usare Youtube per condividere conoscenza a livello globale con i MOOC invece che per guardare i video di Andrea Diprè.

E’ l’era del digito ergo sum, e allora possiamo scegliere di essere quelli che scommettono sui pro di questo strumento, invece che sulle sue, innumerevoli, pecche e strumentalizzazioni.
Alcune belle cose che possiamo fare con questi strumenti, diversamente da dieci anni fa: finanziare, davvero sta volta, progetti ecampagne con il crowdfunding, regalare e ricevere in regalo, condividere, prestare, vestiti, case,  macchine, viaggi, vacanze,  cibo nelle piattaforme di sharing economy e commons collaborativo, informarci, seriamente, su quello che accade dall’atra parte del mondo come se succedesse nel cortile di casa e interrogassimo la nostra vicina impicciona. Lanciare e sostenere campagne chespostano opinioni, e a volte salvano vite.
Accendiamo il cervello prima che lo smartphone la mattina, la coscienza prima dello schermo del computer.
Perché una rivoluzione la fanno le persone che la vogliono, non gli strumenti che la veicolano.


Ah, e se ve lo state chiedendo, sì, è proprio di voi che stavo parlando.

mercoledì 3 giugno 2015

Meravigliosa fatica

Fatica.

Fino a qualche anno fa la prima parola che mi veniva in mente quando guardavo uno spettacolo teatrale, una performance, un balletto, era bellezza. Ora quando guardo un attore su un palco, una ballerina sulle punte, un circense sul filo penso “Fatica”.

Dopo tante esperienze da spettatrice e qualche sporadica da protagonista vedo quanta fatica, quanto amore, quanto sforzo, quanto impegno, quanta dedizione si nascondono dietro quell’unico gesto perfetto, dietro il tono giusto con cui lanciare quella frase nella platea, dietro il balzo armonioso di una ballerina.
Non solo i muscoli che si contraggono, la concentrazione fra le pieghe del volto, il sudore che cola sulle fronti, vedo lo sforzo che sta dietro, dietro al sipario, dietro agli applausi, ai costumi di scena al respiro profondo prima del balzo.

Gli anni per imparare un passo, i mesi per trovare il risuonatore giusto con cui dire una battuta, i giorni passati a riprovare un numero, una nota, le domeniche investite per trovare l’energia perfetta per raccontare la storia.


Vedo la dedizione di chi compie lo sforzo ulteriore di unire all’amore per l’arte quello per il messaggio, l’ardore negli animi di chi mette in scena uno spettacolo di teatro civile, fra le note di un musicista che racconta una storia. Riesco a scorgere quanto si possa essere nudi e soli dietro a una maschera di fronte ad una platea gremita.

E’ in questa fatica che vedo la bellezza. La percepisco ogni volta che una battuta colpisce uno spettatore aprendo per un secondo uno spiraglio sull’immenso lavoro che c’è dietro, al momento in scena, alla mezz’ora sul palco, sento la purezza del lavoro dell’artista quando una nota si fonde a una parola e a un movimento per diventare qualcosa di molto più grande: una scintilla di universo.

Da questa fatica, da questa bellissima fatica, mi lascio travolgere quando sono spettatrice, quando di fronte a me c’è chi mette in gioco se stesso non per gloria, non per fama: perché non potrebbe fare altrimenti.
E’ questa, questa la bellezza che salverà il mondo di cui parlava Dostoevskij, la bellezza dello sforzo di dar vita a amori, orrori, ideali, avventure, magie, microcosmi e universi, di fare della propria carne la carne del mondo.

Lì c’è verità, lì c’è bellezza. Premiamo questa fatica, ogni volta che possiamo.
Anche perché, c’è tutta un’altra fatica, ancora più invisibile: quella di chi si impegna perché tutta questa bellezza arrivi a portata di mano, e di cuore, per ognuno di noi.

Qui, vicino a casa mia, fra Mezzolombardo, San Michele e Mezzocorona, sta per iniziare un festival, Solstizio d’Estate, che da 25 anni porta musica, teatro e danza in paesi da poche migliaia di abitanti. E’ il risultato di mesi di lavoro, di volontari, di giovani, che credono che valga la pena perdere, serate, notti, settimane d’estate per potare in scena chi racconta storie. Che credono che questa bellezza meriti tutte le loro energie, anche se in platea dovesse esserci un solo spettatore ad applaudire per quella splendida fatica.

Orti urbani, bombe atomiche, circhi, giardinieri nomadi, reginette di bellezza, orrori, stupori, suicidi, germogli, coltivatori di alberi secchi, pescatori di anime, cantastorie d’estate, amore, disamore, violenza, coscienza, sentimenti, dialoghi, pentimenti, nani, ballerine, fantasmi, fenomeni da baraccone, pianoforti, chitarre, voci, spartiti, copioni, attori, musicisti, cantanti… storie.
Quanta fatica ci vuole per farli stare tutti su un palcoscenico lungo più di un mese?
Tantissima, per fortuna, perché la fatica è bellissima da vedere.

E se credete, come me, che la bellezza salverà il mondo, venite a vedere cosa c’è dietro questo sipario, allora.
21.30.

Mezzocorona.