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venerdì 18 settembre 2015

Qui Atene, finalmente.

La città che ha inventato la democrazia si prepara al voto anticipato, mentre l’interesse generale scema e le proiezioni sono sempre più sul filo del rasoio.

Ad Atene la sensazione è di calma, almeno apparente, i vecchietti sbirciano dalle caffetterie i lavori per installare il parco per il comizio di chiusura campagna elettorale di Alexis Tsipras in Piazza Syntagma, questa sera, le donne continuano ad andare al mercato e i ragazzi continuano a fare le ore piccole nei bar di Gazi.

Ma a guardarsi intorno nell’aria si percepisce il disagio di una città e di una nazione intera: serrande abbassate in anticipo, netturbini e spazzini in sciopero perché non ricevono uno stipendio, la città sempre più abbandonata a se stessa, i prezzi impennati nei supermarket dopo l’aumento di dieci punti dell’iva, la paura di tornare a fare le file ai bancomat, la sfiducia nelle istituzioni europee dipinta nei murales, le organizzazioni che fanno incetta di fondi europei per progetti inesistenti, i poliziotti ventenni con uno stipendio da 500 euro al mese che presidiano i luoghi sensibili con giubbotti anti proiettile e pistole.

A gennaio i greci si sono stufati dell’attendismo dei partiti tradizionali, concedendo a Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, una vittoria schiacciante, fiduciosi nelle potenzialità del primo ministro quarantunenne e nel suo entourage, uno su tutti il ministro all’economia Yanis Varufakis.
Otto mesi, un referendum e un altro affondo di austerity dopo, la situazione è molto diversa: Syriza è spaccata, 159 deputati del partito non hanno rifiutato di sostenere il piano di salvataggio imposto alla Grecia nonostante il “NO” al referendum, spingendo la coraggiosa mossa di Tsipras che ha abbandonato la poltrona per tastare il polso della popolazione con una nuova tornata elettorale.

L’economia della Grecia è all’orlo del collasso: il PIL è sceso del 25%dal 2010. La disoccupazione è al 26%, gli stipendi sono calati quasi del 40% le pensioni del 45. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà. Senzatetto e tossicodipendenti occupano strade e case sfitte, mentre il welfare non riesce s sostenere i sussidi di disoccupazione né ad occuparsi di persone in palese stato di indigenza.
Fra i giovani, sotto i 40 anni, il sostegno a Syriza è crollato: la base del partito di Tsipras si sente tradita dopo che il primo ministro ha accettato il piano di aiuti rigettato con il referendum. 

Come andranno le elezioni di domenica, dipende da questi scontenti. Dai ragazzi che disertano gli stand dei partiti per darsi alle birrette e alle discussioni politiche nei bar, dai “duri e puri” che potrebbero convergere nella sinistra radicale, nel partito comunista KKE, o nell’estrema destra di Alba Dorata, che spopola fra i giovanissimi più di piercing e tatuaggi.
Lo scenario più probabile a detta degli esperti ma soprattutto dei cittadini che andranno alle urne nel week end, è un governo di coalizione. Syriza potrebbe spuntarla come primo partito, ma nei sondaggi è ben lontana dal 40 % dei seggi che servirebbe per governare il paese se entrassero al governo molti dei partiti minoritari. Meno di due punti dietro nelle proiezioni c’è Nea Dimokratia, partito di centrodestra, vicino al PPE: una coalizione fra le due parti opposte potrebbe essere l’unica soluzione per un governo stabile, che a Tsipras però, fa storcere il naso. Unità popolare, costola di Syriza estremamente a sinistra, e il KKE hanno comunque una buona base, così come, neanche a dirlo, Alba Dorata che come nelle migliori tradizioni di estrema destra cerca capri espiatori negli immigrati e auspica l’uscita dall’euro.

Quello che è chiaro è che lo spirito del “OXI” del no all’austerity europea, non è tramontato, anche se l’affluenza alle urne rischia di contrarsi ulteriormente.

Quello che è incredibile invece, guardando all’Italia delle poltrone a vita e a questa Grecia coraggiosa, è un primo ministro eletto a maggioranza assoluta che lascia la carica, per essere certo che davvero la sua politica sia quello che il popolo vuole. Allora sei ancora qui, Democrazia, è bello conoscerti, finalmente.

venerdì 11 settembre 2015

La Turchia sull'orlo del baratro, e il silenzio internazionale.

Ci sono occasioni che nella vita hanno lo stesso effetto del lancio di un sasso in uno specchio d’acqua. Da un punto centrale, a volte molto piccolo, irradiano increspature che raggiungono la riva del lago.

Io ho avuto una di queste occasioni, poche settimane fa: il mio sassolino lanciato è stata la partecipazione all’European Forum di Alpbach. Gli spunti, gli incontri, con ragazze e ragazzi di 75 nazionalità diverse, ambasciatori, economisti, artisti, filosofi, esperti in campo umanitario, i racconti in prima persona di guerre, occupazioni e carestie, emersi da quelle giornate, meritano di essere riportati, ma concedetemi di farlo più avanti.
Oggi, c’è qualcosa di più urgente di cui parlare.
Due delle ragazze che ho conosciuto al Forum, Ege e Berfin, vivono nella bellissima Turchia. E’ a loro che mi sono rivolta cercando di capire davvero cosa sta succedendo in questo Paese che è europeo quando fa comodo e straniero quando è scomodo.
Perché in Turchia sta succedendo qualcosa, qualcosa di molto grave, qualcosa di molto subdolo, qualcosa di potenzialmente deflagrante per il futuro della nazione, e del panorama internazionale con essa.
Tutti, o almeno chi si informa e chi legge questo blog, ricorderanno quello che è successo a Gezi Park, le proteste, i gas urticanti e le granate assordanti sugli studenti che si opponevano alla politica dittatoriale del premier Tayyip Erdogan, ma il silenzio colpevole dei media internazionali sta ignorando totalmente le vicissitudini delle ultime settimane.

Il premier Erdogan ha scavato una fossa per la Turchia nel corso del suo governo, rendendo il paese meno sicuro e meno stabile, continuando ad accusare gli altri dei problemi del Paese nel tentativo di accentrare su di se quanti più poteri possibili.
Lo scorso 24 luglio USA e Turchia hanno annunciato l’inizio del dispiegamento militare per affrontare la minaccia dell’Isis. Quello che Erdogan sta pianificando, in realtà, è un sistematico attacco alla minoranza curda, rappresentata dal PKK, usando come scusa l’uccisone di due poliziotti da parte di miliziani del PKK, che ha a sua volta accusato le forze di polizia turche di aver permesso l’attacco dell’Isis al centro giovanile curdo che lo scorso luglio è costato la vita a 32 ragazzi.

Ora, complici le manipolazioni del “presidente” la violenza nell’est paese sta andando fuori controllo, e sta contagiando l’intera nazione. Nelle ultime 48 ore il sistematico tentativo  di Erdogan di screditare il partito filocurdo  HDP, che con il 13 per centro che potrebbe ottenere alle elezioni del prossimo primo novembre potrebbe infrangere l’obbiettivo presidenziale di  una maggioranza assoluta, sta portando la popolazione ad assimilare l’HDP ai curdi e al conflitto separatista che è costato 40.000 morti negli ultimi decenni alla Turchia e che sta mietendo vittime a decine nelle ultime settimane, anche fra i civili, dopo il riaccendersi delle ostilità. 

Ieri 10 sedi del partito HDP sono state date alle fiamme da nazionalisti turchi, e tutto il materiale elettorale è andato in cenere nella sede di Istanbul.
Di fatto, il paese è sull’orlo di uno stato di emergenza: c’è un vero e proprio conflitto armato in atto nella parte est e sud del paese, fra le forze armate del Pkk e quelle turche.
Il processo di pace con il Pkk è stato sempre sul filo del rasoio, perché la maggior parte dei turchi è molto sensibile a tematiche quali l’unità nazionale, e la rottura del processo di pace da parte del PKK e le vittime nei conflitti che ne stanno seguendo stanno confondendo la popolazione che sta indirizzando la propria tristezza e rabbia nella direzione sbagliata, verso l’HDP e le minoranze curde.

E questo, è esattamente ciò che Erdogan voleva, e sta succedendo: sta facendo leva sullo spirito nazionalista turco, che conosce molto bene, per eliminare il proprio avversario politico alle prossime elezioni, che potrebbero finire con l’essere rimandate con la scusa di uno stato di emergenza.
Tutta via, una buona parte dei cittadini, sia fra i curdi che fra i turchi, sta continuando a chiedere una risoluzione pacifica della situazione, che sta costando molto in termini di perdite civili ed economiche all’intero Paese.

“La cosa che sarà veramente difficile da frenare- mi ha raccontato Ege- è la forte identità nazionalista delle persone con una forte tradizione unitaria. Tayyip (Erdogan) sa di aver scatenato la bestia: vuole mettere le persone l’una contro l’altra per distruggere la pace e la sicurezza del Paese. L’identità nazionale è una spinta più forte della religione in Turchia, e Erdogan lo sa. Non ha giocato questa carta prima perché non ne ha avuto bisogno, fino ad oggi l’HDP non aveva mia minacciato la sua sovranità elettorale.”

Non è certo un nuovo escamotage, quello di usare il grimaldello dell’identità nazionale per forzare una situazione sociale sostanzialmente pacifica, inasprendo i conflitti etnici e sociali per rendere la politica instabile e avere la scusa di accentare i poteri su un solo individuo.

Lo abbiamo visto succedere in una paio di guerre mondiali e nelle recenti guerre balcaniche.

Non possiamo permettere che la comunità internazionale, ancora una volta, resti a guardare, mentre la Turchia precipita verso la guerra civile e il totalitarismo, la stessa Turchia che è stata ad un passo dall’ingresso in Europa, che sta tamponando l’emergenza migranti, che sta pagando il prezzo più caro nella guerra con lo stato islamico. La stessa Turchia in cui i miei amici si informano e informano, chattano su Facebook e si tingono i capelli di blu, come i loro coetanei europei.

Non possiamo permettere che per non complicare i rapporti economici e diplomatici UE e USA ignorino l’incombete rischio di una crisi democratica, politica e sociale, di valori e di libertà.

English version

There are occasions in life that have the same effect as throwing a stone into a pond. From a central point, sometimes very small, they radiate ripples that reach the shore of the lake.

I had one such occasion, a few weeks ago: my stone launched was the participation at the European Forum Alpbach. The ideas, meetings with girls and boys from 75 different nationalities, ambassadors, economists, artists, philosophers, experts in the humanitarian field, the first-person tells of wars, occupations and food crisis, emerged from those days, deserve to be reported, but allow me to do it later.
Today, there is something more urgent to talk about.
Two of the girls I met at the Forum, Ege and Berfin live in the beautiful Turkey. I ask them their point of view, to really understand what's going on in this Country, considered so European when is convenient and foreign when it is inconvenient.
Because something is happening in Turkey, something very serious, something very sneaky, something potentially explosive for the future of the nation, and of the international scene with it.
All, or at least those who are informed and who use to read this blog, remember what happened in Gezi Park, the protests, the stinging gas and stun grenades on students who opposed the dictatorial policies of Prime Minister Tayyip Erdogan, but the guilty silence of the international media is totally ignoring what’s happening in the last weeks.
Prime Minister Erdogan has dug a hole for Turkey during his government, making the country less safe and less stable, keep blaming someone else for the country's problems, trying to concentrate on himself as many powers as possible.

On July 24 the US and Turkey have announced the beginning of military deployment to fight the Is. What Erdogan is planning, actually, is a systematic attack on the Kurdish minority, represented by the PKK, citing the killing of 2 policemen by the PKK. The PKK claims that the police officers were collaborating with ISIS, allowing the bombing of a Youth Center in Suruc earlier in july that killed 32 people. 
Now, thanks to the manipulations of the "president", the violence in the east of the Country is out of control, and it is affecting the entire nation. The Erdogan’s systematic attempt to discredit the pro-Kurdish party HDP, which expects a 13% in the elections of the next November 1st and could break the goal of a presidential absolute majority, is leading the population to assimilate “HDP” to the Kurds. It means to assimilate HDP to the conflict that costed 40,000 lives over the past decades in Turkey, and to its renewed hostilities. Yesterday Turkish nationalists set ten HDP party headquarters on fire, and all the election’s material went to ashes in the central office of Istanbul’s fire.
In fact, the country is on the brink of a state of emergency: there is a real armed conflict in the east and south of the country, between the armed forces of the PKK and the Turkish one.

The peace process between PKK and Turkish was always on thin rope, because the majority of Turks are very sensitive to issues such as national unity. The break of the peace process by the PKK and the fallowing victims in the conflicts are confusing the people, who are addressing their sadness and anger in the wrong direction, toward the HDP and Kurdish minorities.
This is exactly what Erdogan wanted, and it is happening: is relying on the Turkish nationalist spirit, that he knows very well, to delete his political opponents in the upcoming elections, which could end up being postponed with the excuse of a state of emergency.
However, a huge part of the citizens, Kurds and Turks, is continuing to seek a peaceful resolution of the situation, which is costing a lot in terms of civil victims and economic costs.

"The thing that it’s very hard to stop- told me Ege- are people with strong national feelings and beliefs in Turkey once they’re unleashed, and  Tayyip (Erdogan) knows that and has leashed the beast and wants people to destroy each other’s sanity and peace. National identity is even stronger than religion in Turkey, and Erdogan used the latter with his party but didn’t need to use the first because HDP wasn’t around until a couple of years, now he is using the first because HDP is a threat to his tyranny”

It is certainly not a new trick, using the national identity as a crowbar to force a situation essentially peaceful, exacerbating ethnic and social conflicts to make the political situation unstable and have an excuse to accent the powers on one person.

We saw this happen in a couple of world wars and in the recent Balkan wars.

We cannot allow the international community just stand and watch, once again, while Turkey rushes toward civil war and totalitarianism, the same Turkey that was just one step far from the entrance in Europe, who is dabbing the migrants emergency, which is paying one of the highest price in the war with the Islamic State. That Turkey where my friends try to being informed and inform, chat on Facebook and dye their hair blue, like all the other European young people.


We cannot let EU and US put diplomatic and economic interests first, ignoring the risk of a crisis of democracy, political and social values ​​and freedom.

giovedì 10 settembre 2015

Sarajevo val ben un pensiero.

Due mesi di assenza ingiustificata, o meglio, giustificata solo da un periodo di viaggi incontri così intenso da non lasciarmi il tempo per scriverne.

La prima delle mirabolanti avventure estive della Bisbetica, sono stati i Balcani.
Quei Balcani, terra d’oriente e d’occidente, quei Balcani vicini e lontani, quei Balcani ponte e muro, quei Balcani teatro di una delle più vergognose pagine della storia europea e mondiale degli ultimi vent’anni.
I Balcani che mi hanno emozionata, sedotta, commossa.

La Bosnia, così fiera e impegnata nel tenere il passo europeo senza perdere la propria identità, la Croazia, attraversata in moto, con i porticcioli turistici a fianco murales che a Split incitano ancora gli "Aiduchi".
Una realtà fitta densa, come se fosse tutto contratto, la montagna e il mare, le zone rurali e la città, il passato recente e quello antico, la modernità e la tradizione, il turismo e la guerra, la bellezza e l'orrore. Mostar, e soprattutto Sarajevo, mi sono rimaste nel cuore.

A Mostar la storia bosniaca recente si è raccontata per caso, per bocca di Edjin, un quarantenne che abitava già lì, nella stupenda città sul fiume Narenta, durante la guerra degli anni novanta che ha visto spaccarsi la secolare cultura multietnica bosniaca per le spinte separatiste sorbo/croate e i clamorosi fallimenti dell’Onu. Mi ha fermata mentre fotografavo un palazzo ancora sventrato dalla granate a pochi metri dalla via dei turisti, mentre una madre e un figlio rom frugavano in un cassonetto a dieci metri dalla bancarella dei selfie sticks. La pulizia etnica, la guerra voluta da pochi ma che ha sconfitto tutti, la sua versione della storia.

I cecchini che sparavano alle donne che andavano a prendere l'acqua, la città divisa in due dai bombardamenti, famiglie e amici messi su due lati diversi del fronte, e poi il fosforo bianco, le schegge di granate che lasciano cicatrici nella carne e nell'anima, l'inettitudine degli organismi internazionali, i gruppi di violenti che hanno cambiato il destino di nazioni intere.

Non c’è perdono nelle parole di Edjin, o meglio, c’è per i vicini e gli amici serbi, arruolati a volte contro la loro volontà nelle milizie, c’è per i cittadini croati, vittime anche loro di un leader spietato, ma non c’è perdono, o possibilità di ammenda, per l’Onu, la Nato, l’Unione Europea, i Paesi “occidentali” che sono rimasti a guardare, che hanno lasciato proseguire per anni una guerra che sarebbe potuta durare dieci giorni.

E Sarajevo... non credo che al mondo esista un'alta città con quell'anima. E' come se ti mettesse davanti alla storia in persona, questa città avvolta da fantasmi e profumi, da foreste e cimiteri: le sinagoghe fianco a fianco ai minareti, alle chiese ortodosse, ai campanili, le lapidi bianche islamiche mescolate alle tombe cristiane negli immensi cimiteri che circondano la città, i niquab e gli hotpants nelle vetrine, i buchi di proiettile nei muri dei fast food,i segni delle bombe fra i banchi del Markele, la biblioteca risorta dalle proprie ceneri come la Fenice.
E' una storia così lunga da rischiare di dimenticarne qualche pezzo, per scelta o per semplice oblio. E' allo stesso tempo teatro di guerre, sconfitte e sofferenze, come di speranza, e convivenza e solidarietà fra oriente e occidente, etnie, religioni.
Fra i profumi che escono dai caffè e dalle fumerie di Narghilè, si racconta piano piano, quasi svelandosi, giorno dopo giorno, timidamente.
Inat Kuca e la sua storia di resistenza, la biblioteca che non ha più paura, i mercati e i caffè, i musei e le birrerie, il quartier generale dei serbi sulla collina. Mi hanno raccontato tutti una parte di storia.
Un grande senso di impotenza e di ingiustizia mi ha pervasa dopo la visita al museo storico, l'unico che dedica una "mostra" all'assedio degli anni novanta (a parte la trappola per turisti all'uscita del tunnel della speranza). L’edificio, ancora crivellato dai colpi di mortaio, patisce un'evidente carenza di fondi in contrasto con uno spirito intraprendente. È difficile da trovare e in alcuni punti fatiscente, evidente prova di una colpevole disattenzione internazionale verso chi potrebbe raccontare una storia che punti il faro sui fallimenti dell'Onu e della comunità internazionale al completo.

Pochi giorni dopo, ho conosciuto un sacco di ragazze e ragazzi bosniaci, serbi, croati, kosovari, montenegrini, macedoni, che mi hanno dimostrato ancora una volta la coesione e la voglia di riscatto e giustizia delle nuove generazioni, ma questa è un’altra storia.

La storia che vorrei contribuire a far conoscere oggi, è quella dei Balcani, quella di Sarajevo, non solo la loro ferita più recente, ma tutta quella strada millenaria che li ha resi così unici e forti, così fieri e, finalmente, senza più paura.

Ma per conoscerla, per assaggiare il vero sapore di questo racconto, ancora una volta, non vi resta altro da fare che preparare uno zaino e partire.