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sabato 11 luglio 2015

Srebrenica 20 anni dopo: 8000 morti più uno.

“Portatemi le sue ossa, le riconoscerò di sicuro” Hatidža Heren cerca ancora i resti del marito, 20 anni dopo, come centinaia, migliaia di altre mogli, madri, sorelle, figlie rese vedove e orfane da quella mattanza che, vent’anni fa i serbo-bosniaci hanno messo in atto nella cittadina della Bosnia orientale.

Vent’anni, sono passati solo vent’anni da quel massacro, dagli uomini bendati strappati alle loro famiglie per essere sistematicamente uccisi, o per scomparire su camion di cui ancora, ad oggi, non si conosce la destinazione.
8000 volti, passati in diretta in tv, 8000 volti ignoti, 8000 morti di cui si dimentica il nome, e un morto in più, illustre, pesante, seppellito insieme a decine di migliaia di persone nelle fosse comuni delle guerre balcaniche: L’ONU.
Mentre gli autobus pubblici portavano i musulmani bosniaci nei luoghi di esecuzione, mentre le milizie serbe fucilavano uomini 8 ore al giorno, con pausa pranzo, mentre gli Scorpioni e le Tigri si riprendevano mentre trucidavano ragazzi poco più che ventenni pensando di essere i nuovi Lazar l’ONU, la più grande organizzazione internazionale al mondo, è rimasta a guardare.
L’ONU è morta. Fra le granate di Sarajevo e sotto i proiettili di Srebrenica.

L’esperienza jugoslava ha messo concretamente in risalto l’inadeguatezza delle procedure decisionali delle Nazioni Unite e i risultati fallimentari delle operazioni di polizia internazionale per pacificare un conflitto, dopo la gestione positiva di alcuni conflitti (Angola, Salvador, Cambogia Mozambico)  e la relativa aspettativa.
Con le guerre degli anni ’90 aumentarono le guerre interne agli stati, etniche, religiose, ed emerse la necessità di un ONU fautore del peace building, promotore delle condizioni che garantiscano la pace attraverso la stabilizzazione socio economica, oltre che del peace keeping, il mero mantenimento della pace.
A portare a questa prematura dipartita una serie di concause: il sacrificio dell’azione multilaterale a favore di quella nazionale in seguito all’incapacità di conciliare le posizioni diverse degli stati membri, con la testa chinata davanti all’intervento esterno USA, la carenza strumenti completi per adempiere a propri compiti istituzionali, l’incapacità di preservare le “Safe Areas”.
Srebrenica, prima del genocidio, faceva parte di queste aree sicure, ma quando i soldati di Milosevič sono entrati in città avviando una delle pulizie etniche peggiori della storia non c’erano abbastanza soldati per evitarla, visto quanti pochi paesi membri ne avevano inviati. E d’altro canto, nella divisione forzosa decisa dalla risoluzione ONU Srebrenica faceva parte dell’area destinata ai Serbi.
Quando nel ’92 si è tentata la riforma di questa imponente organizzazione per spingere il peace building e ridurre lo strapotere Nato, gli Usa, ovviamente, misero il veto. Ma la riforma democratica non fu sostenuta dai governi occidentali in primis. Imbrigliato dalle politiche nazionali dei singoli paesi l’Onu scrisse il proprio fallimento, che portò ad un’azione in Jugoslavia vittima di limiti politici, istituzionali e militari.

E questa morte cerebrale si manifesta ancora oggi, vent’anni dopo: l’8 luglio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Gran Bretagna ha proposto una risoluzione di condanna del genocidio di Srebrenica. E’ stata respinta, a causa del veto della Russia.  E credetemi, non v’è dubbio sul fatto che quello di Srebrenica sia stato un genocidio: se non bastassero 8000 lapidi ci sono anche due condanne, da due diversi tribunali internazionali per i crimini di guerra. Ancora una volta l’Onu ha fallito, incapace di superare le divisioni interne e di evolvere rinunciando al diritto di veto nel caso di dibattiti sui crimini di guerra.
Dalle ceneri dell’Onu, forse, quello che potrebbe germogliare è un nuovo ruolo dell’UE: spingendo un avvicinamento dei Balcani all’Unione, sviluppando partnership significative, e sostenendo la tangibile richiesta di riforma che proviene dalla base. Anche se il potenziale di aggregazione dei Balcani ha subito una battuta di arresto dopo la crisi economica, il ruolo della società civile continua ad essere cruciale in un panorama di integrazione, e le istituzioni europee, pur con i limiti che ben consociamo, continuano a dimostrarsi più sensibili al passato e al futuro di queste terre così vicine e pure spesso così lontane.
Mentre la mozione all’ONU si arenava infatti, il Parlamento Europeo ha adottato una mozione di ferma condanna per il genocidio, dimostrando un concreto impegno verso la giustizia e contro il negazionismo.

Portatele in Europa dunque, le ossa dell’Onu, affinché possiamo riconoscerle, e da quelle far nascere un nuovo assetto della politica internazionale, in cui la società possa avere successo, laddove le istituzioni hanno fallito.


Per chi l'avesse dimenticato, alcune immagini per ricordare cos'è successo in Bosnia:

Per chi vuole seguire le evoluzioni del processo balcanico:

mercoledì 8 luglio 2015

Orti, attenti, via!

Non sarebbe divertente raccogliere i pomodori e l’insalata per cena nell’aiuola della fermata dell’autobus? O uscire sul balcone per prendere una manciata di basilico fresco per la spaghettata con gli amici a Mezzanotte?

E non sarebbe bello risparmiare sulla spesa al market sotto casa perché le zucchine crescono sul nostro tetto o nell’orto verticale sulla parete vicino all’entrata del condominio?
Lo so che l’immagine fa molto villaggio dei puffi ma in effetti gli orti urbani, i giardini verticali e le aiuole coltivate a patate si stanno diffondendo in molte città del mondo, seguendo movimenti che li vedono come manifestazioni di una nuova economia condivisa o semplicemente i desideri di singoli che vogliono ritrovare il rapporto con la terra un’alimentazione più sana e abbattere i costi sociali oltre che personali della produzione industriale degli alimenti.
Per molti l’orto sta tornando ad essere non solo luogo di produzione di ortaggi freschi, sani e saporiti ma anche una finestra aperta sulla natura e i suoi preziosi insegnamenti. Per alcuni queste esperienze stanno diventando il mezzo per riqualificare spazi urbani abbandonati, per riunire comunità in un’atmosfera di collaborazione, per affrontare le conseguenze della crisi economica sulla produzione e sulle infrastrutture.
Gli orti urbani si stanno diffondendo rapidamente, anche all’interno di grandi metropoli, e anche qui, a Trento dove c’è qualche novità nell’aria: chissà che la nuova rivoluzione non venga portata avanti proprio a colpi di carote, pomodori e piante di lattuga.
da "Concerto Fra gli Orti" a Mezzocorona Ph Liviana Concin

Tutti, ma proprio tutti, possiamo fare parte di questa rivoluzione che è anche un po’ un ritorno alle origini, perché asta piantare qualche seme, in giardino, su davanzale della finestra, sul balcone, nell’aiuola vicino casa, nei cortili delle scuole, nei cantieri abbandonati, nelle carceri.
Perché per iniziare a fare un orto urbano basta mettere in terra qualcosa di pronto a germogliare. Anche quello spicchio d’aglio che sta facendo radici in fondo al nostro frigo o quelle cipolle dimenticate nella dispensa.
Anche perché coltivare qualcosa è un gesto di grande libertà: un ortaggio, un fiore in una pianta aromatica: non dobbiamo niente a nessuno, solo alla terra: non dobbiamo pagare tasse, fare file al supermercato, stare a regole fissate da altre: le uniche regole che vanno seguite sono quelle della natura.
Non per niente infatti attorno agli orti urbani e ai movimenti che coltivano gli spazi abbandonati nelle città si stanno unendo persone con una nuova idea di comunità e di società oltre che id produzione. E’ il caso per esempio delle Transition Town, del commons collaborativo, degli orti  nelle aiuole di Londra, sui tetti di New York, nei cantieri di Milano, nelle fabbriche in rovina di Detroit.
In questa rivoluzione che si fa brandendo una zucchina o un gambo di sedano che sta contagiando tutto il mondo anche Trento fa a sua parte. La fa con i tanti cittadini di tutte le età che coltivano il proprio orticello vicino casa o negli spazi concessi dai comuni, ma anche con progetti inediti, come quello dei Richiedenti Terra, che a Trento, vicino alla fermata del treno di Villazzano hanno messo in piedi un Orto Comunitario che produce cibo genuino ma anche uno scambio di saperi e socialità.
Il progetto nasce con l’obiettivo di favorire la socializzazione attraverso il recupero di attività di agricoltura contadina, che sviluppi nei partecipanti conoscenza del territorio e senso di cittadinanza. La presenza nel gruppo di persone “richiedenti asilo politico” ha dato lo spunto per la definizione del nome del gruppo: “Richiedenti Terra”.

Questa green revolution sta germogliano un po’ ovunque insomma, bastano un pugno di terra, e un seme. Su Wikihow si trovano facilmente informazioni su come coltivare anche con poco tempo e poco spazio una grande varietà di ortaggi.
Per ispirazione segnalo un paio di blog: quello delle transition towns di rob hopkins e il blog “ghost town farm” per scoprire come una ragazza con una manciata di semi stia cambiando la fisionomia di Detroit dopo il fallimento.
Seguite anche i localissimi richiedenti terra, perché oltre che un pezzo di terra possono offrirvi anche un pezzo di torta o uno spritz nei bellissimi eventi che organizzano.


Ancora una volta, anche solo piantando un seme, anche con le bombe di fiori del guerrilla gardening da lanciare negli spazi più grigi delle nostre città possiamo essere parte di un nuovo modo di vivere e concepire la società, e senza accorgercene quasi saremo più green, più collaborativi e vedrete, finiremo anche col divertirci un sacco.