Translate

lunedì 30 marzo 2015

Santi,poeti e cooperanti: lo sguardo sul mondo della cooperazione italiana di Roberto Belloni



Roberto Belloni è un professore associato dell’università di Trento. Ma non è solo per la sua competenza accademica che ho deciso di parlare con lui, ancora una volta, di cooperazione e società. Ero convinta che il suo punto di vista sarebbe stato utile e interessante, non solo per le pubblicazioni, per gli articoli e il ruolo che riveste: ma perché Roberto Belloni prima che dietro una cattedra è stato sul campo. E’ il professore che non ti aspetti, che è stato in Ex Jugoslavia a lavorare per la democratizzazione quando il bubbone del conflitto etnico e della guerra civile era appena scoppiato, quando della cooperazione si parlava appena. E la mia convinzione, a giudicare da quest’intervista, era ben riposta.

Tanti anni a contatto con la cooperazione internazionale, sia sul campo che come accademico, come è cambiato il ruolo di organizzazioni internazionali e cooperanti nel corso della sua esperienza?
Certamente nell’ultimo periodo si è avviato un processo di professionalizzazione, accentuato negli ultimi anni. Negli anni ’90 era possibile entrare nel mondo della cooperazione con poche competenze, mentre la figura del cooperante di oggi mi sembra si sia progressivamente arricchita di capacità tecniche e manageriali, oltre che organizzative, soprattutto all’estero. Per fare questo lavoro non basta la vocazione, sapere la lingua, sapersi rapportare alle popolazione: è necessario avere competenze, perchè il settore si è aziendalizzato in termini sempre più manageriali. E’ tutto molto più burocratizzato. Vent’anni fa c’era più improvvisazione, eravamo più sprovveduti forse. Era un approccio più avventuristico, ma non necessariamente il nuovo assetto è più valido: da un punto di vista ci sono più conoscenze, dall’altro si è persa la creatività, l’intraprendenza individuale. C’è un trade off fra le due cose.
A fianco ad un numero crescente di giovani che mirano a fare della cooperazione il proprio mestiere, crescono anche la diffidenza e le critiche verso le organizzazioni internazionali, governative e non governative, qual è il suo punto di vista rispetto a questa situazione a due facce?
Quella che si è diffusa, specialmente nel nostro Paese è una visione strumentale, volta a giustificare i tagli alla cooperazione, che non sono dovuti, come spesso si tende a pensare, al fatto che la cooperazione sia pessima, il meccanismo è contrario: visto che i soldi non ci sono allora viene descritta in maniera pessima (basti pensare ai tagli al settore apportati dal governo Berlusconi). Nell’agosto 2014 c’è stata una nuova legge quadro per disciplinare gli aiuti internazionali, che prevedeva la realizzazione di un’agenzia, mai creata. Ma quello che traspare principalmente dalla legge è che la cooperazione interessa più che altro come ponte di lancio per industrie italiane, come rapporto con attori privati. Per i giovani, forse l’interesse in controtendenza con l’opinione generalizzata è suscitato anche dalla difficile crisi economica e dalla mancanza di alternative tradizionali.
A guardare le reazioni della società rispetto agli ultimi eventi sembra che il ruolo di cooperanti e corrispondenti sia sempre più visto sotto una cattiva luce, è reamente così? Quale potrebbe essere secondo lei il motivo?
Molto dell’astio della società mosso dalle storie personali dei cooperanti. Nel caso di Greta e Vanessa, ad esempio, molte delle reazioni sono state mosse dal fatto che questo è un paese conservatore: il fatto che fossero donne è sufficiente a far accendere l’astio, anche nei giovani. Forse per i più avrebbero dovuto restare qui, fare figli e fare le casalinghe. Vittorio Arrigoni, pur essendo di sinistra era un uomo, e le critiche sono state più sparute.
C’è una cooperazione giusta e una sbagliata?
In termini semplicistici: starei lontano dalla questione preparazione (sprovvedute, o non sprovvedute, giusto o sbagliato).Direi che ci può essere un cooperante bravissimo, dal punto di vista tecnico, un ingegnere ad esempio, che magari non ha le conoscenze socio politiche del posto dove lavora: anche una coop perfetta dal punto di vista tecnico può essere inutile o dannosa.
Un esempio: una strada può essere ben costruita, ma potrebbe essere usata da mezzi militari per peggiorare le condizioni di una parte della popolazione in Paesi in crisi. La cooperazione “buona” tiene in considerazione gli aspetti del contesto in cui interviene, e dei possibili impatti dell’intervento. Quella “non buona” è quella strettamente tecnica, e c’è ancora. Agli inizi degli anni’90 il Rwanda era un esempio di cooperazione che funzionava, perché il pil era cresciuto dopo l’intervento internazionale, e c’era momentanea pace, e progresso. Pochi anni dopo è stato teatro di un genocidio da un milione di morti..
Com’è cambiato il ruolo delle istituzioni nazionali e sovranazionali rispetto alle crisi umanitarie? Ci sono differenze fra la guerra civile nei Balcani dei prima anni novanta e l’attuale crisi in Siria?
Al di là dei dettagli della situazione specifica, in realtà le differenze sono pochissime, Dai Balcani in avanti la teoria e la pratica degli interventi è stata mossa dal contenimento, ovvero dall’intervento palliativo locale che ha però come scopo ultimo tutelare i paesi occidentali, contenendo le migrazioni eccessive. L’atteggiamento di fondo è di aiuto strettamente umanitario, senza intervento politico forte. Perché una visione politica rispetto alla soluzione non c’è. Un intervento dei caschi blu in Siria non credo proprio ci sarà, almeno per il momento. Manca una visione strategica.
Cooperanti e ONG, come sono tutelati a livello nazionale?
C’è tutela formale tale per cui le ONG possono chiedere riconoscimento, hanno quindi facoltà di presenziare come interlocutori ai tavoli dove si decidono le gestioni delle crisi. Sull’aspetto del lavoro sul campo ci sono più problemi, in particolare in situazioni di conflitto. I rischi inevitabilmente ci sono, fanno parte dell’essenza stessa di questo lavoro. Le soluzioni non sono così immediate: si può tentare di far capire ai contendenti che non si è schierati (ad esempio come fa Emergency, con medici e personale disarmato, che cura tutti). Un secondo approccio è assumere milizie locali (come hanno fatto alcune ONG Italiane in Somalia) pagate. La terza è quella di affidarsi a truppe internazionali se presenti sul territorio, lavorando a stretto contato con loro. Il problema sta nel fatto che ci si associa all’esercito nel bene e nel male, e il cooperante diventa un target, restringendo lo spazio umanitario. L’Italia tutela i suoi cooperanti, ma in quanto cittadini all’estero, senza normative dedicate.
E’ necessaria una maggiore consapevolezza? Una maggiore informazione? Se sì secondo lei da dove vengono queste carenze: informazione, istituzioni, istruzione?
Sì. Ci sono carenze nel sistema dell’informazione, che tende a semplificare e non approfondisce. Non si parla tanto di esteri, e se lo si fa lo si fa con una prospettiva nazionale. Alcune settimane fa in Libia erano tutti pronti a intervenire, ma pochi pronti a capire cosa stava succedendo. E su questo hanno responsabilità politica e informazione. L’istruzione è anche molto lacunosa, ma ci sono casi di progetti pilota nelle scuole per rendere i ragazzi più consapevoli, anche se sospetto che le iniziative siano più individuali, mancano quelle sistematiche.
Come e attraverso quali canali è possibile avvicinare il pubblico a realtà come la cooperazione e a quelle in cui la cooperazione opera?
C’è qualche canale utile. Riviste, siti: Internazionale è uno strumento abbastanza utile, Limes, e c’è tanto in lingua inglese, il Guardian Weekly, L’Economist, che pur da un punto di vista conservatore copre bene la politica internazionale. E poi i siti specializzati: sul medioriente funziona molto bene Haaretz. Ma al di là dell’offerta informativa, purtroppo nel pubblico c’è molta pigrizia. Le notizie si consumano velocemente, senza approfondirle.


lunedì 23 marzo 2015

Se la stampa non è un'opinione: il punto di vista di Ugo Tramballi

Una conversazione con il giornalista del Sole 24 Ore , su informazione, cooperazione e società.







Spunti interessanti,e magari inaspettati, da questo  giornalista con la G maiuscola.

Ugo Tramballi "Ha iniziato la carriera di giornalista nel 1976 al Giornale di Montanelli; dal 1983 è stato inviato speciale in Medio Oriente, India e Africa e corrispondente di guerra in Libano, Iran, Iraq, Afghanistan e Angola. Tra il 1987 e il 1991 è stato corrispondente da Mosca. Dal 1991 è inviato ed editorialista di affari internazionali al Sole 24 Ore.È membro dell’Istituto affari internazionali di Roma, del Centro italiano per la pace in Medio Oriente di Milano, Media Leader del World Economic Forum." (da "Ilsole24ore.com) in diretta da Gerusalemme, la sua chiacchierata con La BisbEtika:


Qual è secondo lei il ruolo della stampa e dei mezzi di informazione nel riportare ciò che succede oltre i confini statali? Il rischio strumentalizzazione è dietro l’angolo, i titoloni spaventano il pubblico o danno semplicemente ai lettori quello che vogliono?
Il ruolo della stampa dovrebbe essere informare nel migliore dei modi possibile, ma non sempre è così: sia dentro che fuori i nostri confini. Ma in Italia, riguardo agli esteri, non penso tanto a una volontà di strumentalizzazione da parte di qualche centro di potere – a volte tuttavia accade - quanto a una via di mezzo fra il sensazionalismo e un modo di accontentare i lettori che, in generale, di esteri ne sanno ancora meno dei giornalisti. Scrivere per esempio la sciocchezza che l’Isis sta per arrivare a Roma, ha più effetto che tentare di spiegare quanto effettivamente il califfato sia una minaccia.
Spesso valutando gli avvenimenti sarebbe buona regola chiederci chi ci guadagna, quindi chi guadagna secondo lei da un’informazione a volte univoca?
Credo poco alle teorie della cospirazione o all’esistenza di un Grande Fratello: a volte è solo ignoranza o mediocrità di giornalisti ai quali piace sposare cause piuttosto che tentare di capire le ragioni degli uni e quelle degli altri in un conflitto.
L’ inviato di guerra, il corrispondente dall’estero: sono ancora ruoli necessari per un’informazione che al giorno d’oggi passa per la rete e la sua capillarità a portata di click?
L’inviato – che sia di guerra, di avvenimenti interni, di esteri o di mafia da Palermo – è una delle prime vittime del web. Chiunque può scrivere ciò che vuole da dove vuole; l’immediatezza della notizia trionfa sulla “slow news”, cioè sul tentativo di approfondire e ragionale. Il web ha molti pregi ma alcuni gravi difetti: uno di questi è la scomparsa della sana abitudine di verificare le fonti. Dare in fretta la notizia è ormai più importante che verificarne la veridicità.
Un’esperienza decennale nel raccontare il Mondo, anche in situazioni critiche, si è mai sentito davvero in pericolo?
Non mi piace rispondere a questa domanda che, stranamente, molti giovani mi fanno. Che mi trovi in pericolo o meno mentre seguo un avvenimento, è irrilevante. Non sono io la notizia: io seguo e racconto la notizia. Ma capisco che molti giornalisti, soprattutto i televisivi in zone di guerra, facciano più spettacolo che informazione, dando del nostro mestiere una falsa aurea di protagonismo. La cosa peggiore del nostro mestiere è quando un giornalista crede che la notizia sia lui che segue una notizia.
In tanti anni come corrispondente dall’estero, ha notato un cambiamento nelle tutele garantite dallo Stato a chi lavora in zone di rischio?
Non credo che lo Stato debba garantirmi delle tutele di qualsiasi genere. Se vado in una zona pericolosa, lo faccio per mia volontà, d’accordo con il mio giornale. Non ho diritto ad alcuna tutela pubblica, non sono un mutuato Inps.
Cooperanti, corrispondenti, dipendenti di aziende dislocate: si moltiplicano gli episodi che mettono a rischio la loro incolumità: dai rapimenti in Medioriente alle pressioni del Governo sui giornalisti in Cina: cosa rappresenta il rischio maggiore dal suo punto di vista?
Il rischio maggiore per un giornalista non è quando rischia la vita, per esempio in una zona di guerra: come ho detto prima è una sua scelta e non può pretendere che i combattenti tengano conto del suo “diritto” d’informare. Per i cooperanti e i dipendenti di aziende è un po’ diverso ma anche loro in genere sanno sin dall’inizio di andare a operare in zone rischiose. Il pericolo maggiore per un giornalista è quando governi e regimi tentano senza sparare di limitare il suo lavoro.
Dalla società civile e dalla politica queste figure professionali ricevono più spesso critiche e atteggiamenti astiosi, se non addirittura aggressivi, più che solidarietà e interesse: perchè? Dove sta la differenza fra i Marò e Greta e Vanessa?
Se posso dirlo, i due marò sono più vittime di quanto lo siano Greta e Vanessa. Latorre e Girone erano al lavoro, mandati in missione dal loro governo che doveva garantire un quadro legale internazionale al loro operato. Le due ragazze, con tutta la stima per i loro ideali, sono andate allo sbaraglio volontariamente e con molta ingenuità. Ci sono donne e uomini dello Stato che hanno rischiato la vita per tirarle fuori dalla Siria, della quale hanno dimostrato di non capire la profondità della tragedia.
Perché milioni di persone sono scese in piazza per la libertà di stampa di Charlie Hebdo mentre vengono accettate, anche dai governi legati da rapporti economici al gigante asiatico, le pressioni e i vincoli imposti ai giornalisti e ai loro collaboratori in Cina?
Se tu mia avessi chiesto cosa pensavo di Charlie Hebdo prima della tragedia di Parigi, ti avrei detto che quel giornale era mediocre e arrogante nella sua presunzione intellettuale di criticare e insultare chiunque. Ma a Parigi è avvenuta un’esecuzione, per questo ogni critica scompare di fronte alla tragedia e alla gravità dell’aggressione al diritto di opinione. Non è paragonabile con le pressioni che un giornalista può subire da un regime, per quanto repressivo. Il mondo è pieno di questi regimi e spesso i giornalisti subiscono pressioni anche nel mondo democratico.
Qual è il ruolo dell’informazione in questo schema? Portare verso il pubblico l’indifferenza della classe politica o viceversa? I media sono solo testimoni di queste dinamiche o anche fomentatori?

I titoli eccessivi di Libero, quelli per tutte le stagioni del Corriere della Sera, quelli marxisti del Manifesto o i titoli confindustriali del Sole 24 Ore, cercano tutti d'intercettare il loro lettore tipo. In qualche modo la libertà di stampa italiana consiste nell'avere tanti giornali di parte diversa. E' difficile trovare esempi di giornalismo anglosassone. Il quale non è assenza di opinioni ma, al contrario, la libertà di cambiare opinione a seconda della situazione e non mantenerla a seconda degli interessi dell'editore. Ovunque nel mondo democratico, la linea editoriale di un giornale tiene conto degli interessi del suo editore: succede anche al Financial Times piuttosto che al New York Times. Da noi un po' di più, al punto da essere percepiti più come strumento degli interessi degli editori che come strumento d'informazione. E' una delle ragioni delle scarse percentuali di diffusione dei giornali in Italia, da sempre. Ciononostante, anche da noi i giornali contribuiscono a formare l'opinione pubblica e l'interesse generale. Forse più di qualsiasi altro strumento.

In diretta da Trento, poco da aggiungere, se non un "chapeau" per una professionalità che abbiamo imparato a non aspettarci più.
Appuntamento alla prossima intervista della BisbEtika, questa volta con un accademico, speciale... a presto!

martedì 17 marzo 2015

Operazione Cooperazione.

Un po’ per caso e un po’ per via delle recenti vicende di cronaca mi sto trovando spesso a discutere del ruolo di cooperanti, corrispondenti e lavoratori all’estero che nel mondo di oggi sono sempre di più e sempre più a rischio.


Da quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono state rapite, e poi liberate, in Siria mentre svolgevano un progetto di sostegno alle popolazioni nel territorio dilaniato da quattro anni di guerra, nei salotti televisivi, dalle colonne dei giornali, nei simposi come nei bar gli esperti di cooperazione hanno iniziato a spuntare come i funghi dopo un temporale.

Nella stragrande maggioranza dei casi chi si dedica alle attività umanitarie o di sostegno allo sviluppo all’estero ispira alla società civile, e di conseguenza alla politica e alla stampa, toni poco pacati se non aggressivi: da “prima gli italiani” passando per “dovevate starvene a casa vostra” per arrivare a veri e propri insulti che mi rifiuto di ripetere.

Eppure è difficile capire dove stia per i più il confine fra utile e inutile, buono o cattivo, eroe o sprovveduto.
Nella terra delle “oRgettine” e di Famiglia Cristiana, della famiglia stile Mulino Bianco e dei femminicidi quotidiani, i Marò vanno tutelati e protetti, mentre Greta e Vanessa andavano lasciate in mano ai rapitori dell’ Isis. Quattrocchi è stato un eroe, Vittorio Arrigoni un comunista antisemita. Oriana Fallaci è vicina alla canonizzazione nazionalpopolare me delle difficoltà dei corrispondenti esteri, ad esempio, inCina, importa poco o nulla alla maggior parte del pubblico.
L'immagine della campagna #freemiao

Senza raccontare di nuovo le storie (le trovate nei link delle righe precedenti) di questi personaggi, ho deciso di chiedere un parere a qualcuno che della vita e del lavoro fuori dai confini dell’Italia sa qualcosa di più di noi professori da social network laureati su Slytg24.

Da quattro interviste, che pubblicherò nel corso del prossimo mese, spero possano nascere spunti e punti di vista nuovi per discutere con un po’ più di competenza di corrispondenti e volontari, e soprattutto di quella cooperazione internazionale che spesso si sente nominare ma che fatichiamo a riconoscere.

Prima di iniziare, due piccole definizioni: La politica di cooperazione allo sviluppo è l’insieme di politiche attuate da un governo, o da un’istituzione multilaterale, che mirano a creare le condizioni  necessarie per lo sviluppo economico e sociale duraturo e sostenibile in un altro paese. L’attuazione di tali politiche può essere realizzata da organizzazioni governative, nazionali o internazionali, o da organizzazioni non governative (ONG), indipendenti.

 I dipendenti di queste organizzazioni sono i famosi cooperanti che “se la vanno a cercare”.
Col recente affermarsi di nuovi attori politici ed economici che spingono verso strategie diversificate di sviluppo (crescita sostenibile, consumo “etico”, tutela dell'ambiente come parte dell’impegno contro la povertà e la fame) la Cooperazione allo sviluppo è sempre meno una questione di aiuti da governo a governo e sempre più un fenomeno complesso di cooperazione decentrata.
La prospettiva della cooperazione decentrata necessita di un maggior coinvolgimento dell’intera cittadinanza, e non più solo delle nicchie attive di popolazione sensibile: informarsi e farsi un’opinione al riguardo sta diventando un dovere, anche perché quello degli aiuto allo sviluppo e delle ONG è un business da miliardi di dollari, sul quale l’opinione pubblica dovrebbe vigilare.

L’intervista ad Ugo Tramballi, corrispondente del Sole 24 ore, già giornalista del Giornale di Montanelli, inviato in Medioriente, Oriente, Russia per citare alcune esperienze, sarà online sulla BisbEtika a breve.
Offrirà qualche buono spunto? Stay Tuned!

E facciamocela un’opinione, non costa niente e sia mai che ci serva!