Translate

venerdì 18 settembre 2015

Qui Atene, finalmente.

La città che ha inventato la democrazia si prepara al voto anticipato, mentre l’interesse generale scema e le proiezioni sono sempre più sul filo del rasoio.

Ad Atene la sensazione è di calma, almeno apparente, i vecchietti sbirciano dalle caffetterie i lavori per installare il parco per il comizio di chiusura campagna elettorale di Alexis Tsipras in Piazza Syntagma, questa sera, le donne continuano ad andare al mercato e i ragazzi continuano a fare le ore piccole nei bar di Gazi.

Ma a guardarsi intorno nell’aria si percepisce il disagio di una città e di una nazione intera: serrande abbassate in anticipo, netturbini e spazzini in sciopero perché non ricevono uno stipendio, la città sempre più abbandonata a se stessa, i prezzi impennati nei supermarket dopo l’aumento di dieci punti dell’iva, la paura di tornare a fare le file ai bancomat, la sfiducia nelle istituzioni europee dipinta nei murales, le organizzazioni che fanno incetta di fondi europei per progetti inesistenti, i poliziotti ventenni con uno stipendio da 500 euro al mese che presidiano i luoghi sensibili con giubbotti anti proiettile e pistole.

A gennaio i greci si sono stufati dell’attendismo dei partiti tradizionali, concedendo a Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, una vittoria schiacciante, fiduciosi nelle potenzialità del primo ministro quarantunenne e nel suo entourage, uno su tutti il ministro all’economia Yanis Varufakis.
Otto mesi, un referendum e un altro affondo di austerity dopo, la situazione è molto diversa: Syriza è spaccata, 159 deputati del partito non hanno rifiutato di sostenere il piano di salvataggio imposto alla Grecia nonostante il “NO” al referendum, spingendo la coraggiosa mossa di Tsipras che ha abbandonato la poltrona per tastare il polso della popolazione con una nuova tornata elettorale.

L’economia della Grecia è all’orlo del collasso: il PIL è sceso del 25%dal 2010. La disoccupazione è al 26%, gli stipendi sono calati quasi del 40% le pensioni del 45. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà. Senzatetto e tossicodipendenti occupano strade e case sfitte, mentre il welfare non riesce s sostenere i sussidi di disoccupazione né ad occuparsi di persone in palese stato di indigenza.
Fra i giovani, sotto i 40 anni, il sostegno a Syriza è crollato: la base del partito di Tsipras si sente tradita dopo che il primo ministro ha accettato il piano di aiuti rigettato con il referendum. 

Come andranno le elezioni di domenica, dipende da questi scontenti. Dai ragazzi che disertano gli stand dei partiti per darsi alle birrette e alle discussioni politiche nei bar, dai “duri e puri” che potrebbero convergere nella sinistra radicale, nel partito comunista KKE, o nell’estrema destra di Alba Dorata, che spopola fra i giovanissimi più di piercing e tatuaggi.
Lo scenario più probabile a detta degli esperti ma soprattutto dei cittadini che andranno alle urne nel week end, è un governo di coalizione. Syriza potrebbe spuntarla come primo partito, ma nei sondaggi è ben lontana dal 40 % dei seggi che servirebbe per governare il paese se entrassero al governo molti dei partiti minoritari. Meno di due punti dietro nelle proiezioni c’è Nea Dimokratia, partito di centrodestra, vicino al PPE: una coalizione fra le due parti opposte potrebbe essere l’unica soluzione per un governo stabile, che a Tsipras però, fa storcere il naso. Unità popolare, costola di Syriza estremamente a sinistra, e il KKE hanno comunque una buona base, così come, neanche a dirlo, Alba Dorata che come nelle migliori tradizioni di estrema destra cerca capri espiatori negli immigrati e auspica l’uscita dall’euro.

Quello che è chiaro è che lo spirito del “OXI” del no all’austerity europea, non è tramontato, anche se l’affluenza alle urne rischia di contrarsi ulteriormente.

Quello che è incredibile invece, guardando all’Italia delle poltrone a vita e a questa Grecia coraggiosa, è un primo ministro eletto a maggioranza assoluta che lascia la carica, per essere certo che davvero la sua politica sia quello che il popolo vuole. Allora sei ancora qui, Democrazia, è bello conoscerti, finalmente.

venerdì 11 settembre 2015

La Turchia sull'orlo del baratro, e il silenzio internazionale.

Ci sono occasioni che nella vita hanno lo stesso effetto del lancio di un sasso in uno specchio d’acqua. Da un punto centrale, a volte molto piccolo, irradiano increspature che raggiungono la riva del lago.

Io ho avuto una di queste occasioni, poche settimane fa: il mio sassolino lanciato è stata la partecipazione all’European Forum di Alpbach. Gli spunti, gli incontri, con ragazze e ragazzi di 75 nazionalità diverse, ambasciatori, economisti, artisti, filosofi, esperti in campo umanitario, i racconti in prima persona di guerre, occupazioni e carestie, emersi da quelle giornate, meritano di essere riportati, ma concedetemi di farlo più avanti.
Oggi, c’è qualcosa di più urgente di cui parlare.
Due delle ragazze che ho conosciuto al Forum, Ege e Berfin, vivono nella bellissima Turchia. E’ a loro che mi sono rivolta cercando di capire davvero cosa sta succedendo in questo Paese che è europeo quando fa comodo e straniero quando è scomodo.
Perché in Turchia sta succedendo qualcosa, qualcosa di molto grave, qualcosa di molto subdolo, qualcosa di potenzialmente deflagrante per il futuro della nazione, e del panorama internazionale con essa.
Tutti, o almeno chi si informa e chi legge questo blog, ricorderanno quello che è successo a Gezi Park, le proteste, i gas urticanti e le granate assordanti sugli studenti che si opponevano alla politica dittatoriale del premier Tayyip Erdogan, ma il silenzio colpevole dei media internazionali sta ignorando totalmente le vicissitudini delle ultime settimane.

Il premier Erdogan ha scavato una fossa per la Turchia nel corso del suo governo, rendendo il paese meno sicuro e meno stabile, continuando ad accusare gli altri dei problemi del Paese nel tentativo di accentrare su di se quanti più poteri possibili.
Lo scorso 24 luglio USA e Turchia hanno annunciato l’inizio del dispiegamento militare per affrontare la minaccia dell’Isis. Quello che Erdogan sta pianificando, in realtà, è un sistematico attacco alla minoranza curda, rappresentata dal PKK, usando come scusa l’uccisone di due poliziotti da parte di miliziani del PKK, che ha a sua volta accusato le forze di polizia turche di aver permesso l’attacco dell’Isis al centro giovanile curdo che lo scorso luglio è costato la vita a 32 ragazzi.

Ora, complici le manipolazioni del “presidente” la violenza nell’est paese sta andando fuori controllo, e sta contagiando l’intera nazione. Nelle ultime 48 ore il sistematico tentativo  di Erdogan di screditare il partito filocurdo  HDP, che con il 13 per centro che potrebbe ottenere alle elezioni del prossimo primo novembre potrebbe infrangere l’obbiettivo presidenziale di  una maggioranza assoluta, sta portando la popolazione ad assimilare l’HDP ai curdi e al conflitto separatista che è costato 40.000 morti negli ultimi decenni alla Turchia e che sta mietendo vittime a decine nelle ultime settimane, anche fra i civili, dopo il riaccendersi delle ostilità. 

Ieri 10 sedi del partito HDP sono state date alle fiamme da nazionalisti turchi, e tutto il materiale elettorale è andato in cenere nella sede di Istanbul.
Di fatto, il paese è sull’orlo di uno stato di emergenza: c’è un vero e proprio conflitto armato in atto nella parte est e sud del paese, fra le forze armate del Pkk e quelle turche.
Il processo di pace con il Pkk è stato sempre sul filo del rasoio, perché la maggior parte dei turchi è molto sensibile a tematiche quali l’unità nazionale, e la rottura del processo di pace da parte del PKK e le vittime nei conflitti che ne stanno seguendo stanno confondendo la popolazione che sta indirizzando la propria tristezza e rabbia nella direzione sbagliata, verso l’HDP e le minoranze curde.

E questo, è esattamente ciò che Erdogan voleva, e sta succedendo: sta facendo leva sullo spirito nazionalista turco, che conosce molto bene, per eliminare il proprio avversario politico alle prossime elezioni, che potrebbero finire con l’essere rimandate con la scusa di uno stato di emergenza.
Tutta via, una buona parte dei cittadini, sia fra i curdi che fra i turchi, sta continuando a chiedere una risoluzione pacifica della situazione, che sta costando molto in termini di perdite civili ed economiche all’intero Paese.

“La cosa che sarà veramente difficile da frenare- mi ha raccontato Ege- è la forte identità nazionalista delle persone con una forte tradizione unitaria. Tayyip (Erdogan) sa di aver scatenato la bestia: vuole mettere le persone l’una contro l’altra per distruggere la pace e la sicurezza del Paese. L’identità nazionale è una spinta più forte della religione in Turchia, e Erdogan lo sa. Non ha giocato questa carta prima perché non ne ha avuto bisogno, fino ad oggi l’HDP non aveva mia minacciato la sua sovranità elettorale.”

Non è certo un nuovo escamotage, quello di usare il grimaldello dell’identità nazionale per forzare una situazione sociale sostanzialmente pacifica, inasprendo i conflitti etnici e sociali per rendere la politica instabile e avere la scusa di accentare i poteri su un solo individuo.

Lo abbiamo visto succedere in una paio di guerre mondiali e nelle recenti guerre balcaniche.

Non possiamo permettere che la comunità internazionale, ancora una volta, resti a guardare, mentre la Turchia precipita verso la guerra civile e il totalitarismo, la stessa Turchia che è stata ad un passo dall’ingresso in Europa, che sta tamponando l’emergenza migranti, che sta pagando il prezzo più caro nella guerra con lo stato islamico. La stessa Turchia in cui i miei amici si informano e informano, chattano su Facebook e si tingono i capelli di blu, come i loro coetanei europei.

Non possiamo permettere che per non complicare i rapporti economici e diplomatici UE e USA ignorino l’incombete rischio di una crisi democratica, politica e sociale, di valori e di libertà.

English version

There are occasions in life that have the same effect as throwing a stone into a pond. From a central point, sometimes very small, they radiate ripples that reach the shore of the lake.

I had one such occasion, a few weeks ago: my stone launched was the participation at the European Forum Alpbach. The ideas, meetings with girls and boys from 75 different nationalities, ambassadors, economists, artists, philosophers, experts in the humanitarian field, the first-person tells of wars, occupations and food crisis, emerged from those days, deserve to be reported, but allow me to do it later.
Today, there is something more urgent to talk about.
Two of the girls I met at the Forum, Ege and Berfin live in the beautiful Turkey. I ask them their point of view, to really understand what's going on in this Country, considered so European when is convenient and foreign when it is inconvenient.
Because something is happening in Turkey, something very serious, something very sneaky, something potentially explosive for the future of the nation, and of the international scene with it.
All, or at least those who are informed and who use to read this blog, remember what happened in Gezi Park, the protests, the stinging gas and stun grenades on students who opposed the dictatorial policies of Prime Minister Tayyip Erdogan, but the guilty silence of the international media is totally ignoring what’s happening in the last weeks.
Prime Minister Erdogan has dug a hole for Turkey during his government, making the country less safe and less stable, keep blaming someone else for the country's problems, trying to concentrate on himself as many powers as possible.

On July 24 the US and Turkey have announced the beginning of military deployment to fight the Is. What Erdogan is planning, actually, is a systematic attack on the Kurdish minority, represented by the PKK, citing the killing of 2 policemen by the PKK. The PKK claims that the police officers were collaborating with ISIS, allowing the bombing of a Youth Center in Suruc earlier in july that killed 32 people. 
Now, thanks to the manipulations of the "president", the violence in the east of the Country is out of control, and it is affecting the entire nation. The Erdogan’s systematic attempt to discredit the pro-Kurdish party HDP, which expects a 13% in the elections of the next November 1st and could break the goal of a presidential absolute majority, is leading the population to assimilate “HDP” to the Kurds. It means to assimilate HDP to the conflict that costed 40,000 lives over the past decades in Turkey, and to its renewed hostilities. Yesterday Turkish nationalists set ten HDP party headquarters on fire, and all the election’s material went to ashes in the central office of Istanbul’s fire.
In fact, the country is on the brink of a state of emergency: there is a real armed conflict in the east and south of the country, between the armed forces of the PKK and the Turkish one.

The peace process between PKK and Turkish was always on thin rope, because the majority of Turks are very sensitive to issues such as national unity. The break of the peace process by the PKK and the fallowing victims in the conflicts are confusing the people, who are addressing their sadness and anger in the wrong direction, toward the HDP and Kurdish minorities.
This is exactly what Erdogan wanted, and it is happening: is relying on the Turkish nationalist spirit, that he knows very well, to delete his political opponents in the upcoming elections, which could end up being postponed with the excuse of a state of emergency.
However, a huge part of the citizens, Kurds and Turks, is continuing to seek a peaceful resolution of the situation, which is costing a lot in terms of civil victims and economic costs.

"The thing that it’s very hard to stop- told me Ege- are people with strong national feelings and beliefs in Turkey once they’re unleashed, and  Tayyip (Erdogan) knows that and has leashed the beast and wants people to destroy each other’s sanity and peace. National identity is even stronger than religion in Turkey, and Erdogan used the latter with his party but didn’t need to use the first because HDP wasn’t around until a couple of years, now he is using the first because HDP is a threat to his tyranny”

It is certainly not a new trick, using the national identity as a crowbar to force a situation essentially peaceful, exacerbating ethnic and social conflicts to make the political situation unstable and have an excuse to accent the powers on one person.

We saw this happen in a couple of world wars and in the recent Balkan wars.

We cannot allow the international community just stand and watch, once again, while Turkey rushes toward civil war and totalitarianism, the same Turkey that was just one step far from the entrance in Europe, who is dabbing the migrants emergency, which is paying one of the highest price in the war with the Islamic State. That Turkey where my friends try to being informed and inform, chat on Facebook and dye their hair blue, like all the other European young people.


We cannot let EU and US put diplomatic and economic interests first, ignoring the risk of a crisis of democracy, political and social values ​​and freedom.

giovedì 10 settembre 2015

Sarajevo val ben un pensiero.

Due mesi di assenza ingiustificata, o meglio, giustificata solo da un periodo di viaggi incontri così intenso da non lasciarmi il tempo per scriverne.

La prima delle mirabolanti avventure estive della Bisbetica, sono stati i Balcani.
Quei Balcani, terra d’oriente e d’occidente, quei Balcani vicini e lontani, quei Balcani ponte e muro, quei Balcani teatro di una delle più vergognose pagine della storia europea e mondiale degli ultimi vent’anni.
I Balcani che mi hanno emozionata, sedotta, commossa.

La Bosnia, così fiera e impegnata nel tenere il passo europeo senza perdere la propria identità, la Croazia, attraversata in moto, con i porticcioli turistici a fianco murales che a Split incitano ancora gli "Aiduchi".
Una realtà fitta densa, come se fosse tutto contratto, la montagna e il mare, le zone rurali e la città, il passato recente e quello antico, la modernità e la tradizione, il turismo e la guerra, la bellezza e l'orrore. Mostar, e soprattutto Sarajevo, mi sono rimaste nel cuore.

A Mostar la storia bosniaca recente si è raccontata per caso, per bocca di Edjin, un quarantenne che abitava già lì, nella stupenda città sul fiume Narenta, durante la guerra degli anni novanta che ha visto spaccarsi la secolare cultura multietnica bosniaca per le spinte separatiste sorbo/croate e i clamorosi fallimenti dell’Onu. Mi ha fermata mentre fotografavo un palazzo ancora sventrato dalla granate a pochi metri dalla via dei turisti, mentre una madre e un figlio rom frugavano in un cassonetto a dieci metri dalla bancarella dei selfie sticks. La pulizia etnica, la guerra voluta da pochi ma che ha sconfitto tutti, la sua versione della storia.

I cecchini che sparavano alle donne che andavano a prendere l'acqua, la città divisa in due dai bombardamenti, famiglie e amici messi su due lati diversi del fronte, e poi il fosforo bianco, le schegge di granate che lasciano cicatrici nella carne e nell'anima, l'inettitudine degli organismi internazionali, i gruppi di violenti che hanno cambiato il destino di nazioni intere.

Non c’è perdono nelle parole di Edjin, o meglio, c’è per i vicini e gli amici serbi, arruolati a volte contro la loro volontà nelle milizie, c’è per i cittadini croati, vittime anche loro di un leader spietato, ma non c’è perdono, o possibilità di ammenda, per l’Onu, la Nato, l’Unione Europea, i Paesi “occidentali” che sono rimasti a guardare, che hanno lasciato proseguire per anni una guerra che sarebbe potuta durare dieci giorni.

E Sarajevo... non credo che al mondo esista un'alta città con quell'anima. E' come se ti mettesse davanti alla storia in persona, questa città avvolta da fantasmi e profumi, da foreste e cimiteri: le sinagoghe fianco a fianco ai minareti, alle chiese ortodosse, ai campanili, le lapidi bianche islamiche mescolate alle tombe cristiane negli immensi cimiteri che circondano la città, i niquab e gli hotpants nelle vetrine, i buchi di proiettile nei muri dei fast food,i segni delle bombe fra i banchi del Markele, la biblioteca risorta dalle proprie ceneri come la Fenice.
E' una storia così lunga da rischiare di dimenticarne qualche pezzo, per scelta o per semplice oblio. E' allo stesso tempo teatro di guerre, sconfitte e sofferenze, come di speranza, e convivenza e solidarietà fra oriente e occidente, etnie, religioni.
Fra i profumi che escono dai caffè e dalle fumerie di Narghilè, si racconta piano piano, quasi svelandosi, giorno dopo giorno, timidamente.
Inat Kuca e la sua storia di resistenza, la biblioteca che non ha più paura, i mercati e i caffè, i musei e le birrerie, il quartier generale dei serbi sulla collina. Mi hanno raccontato tutti una parte di storia.
Un grande senso di impotenza e di ingiustizia mi ha pervasa dopo la visita al museo storico, l'unico che dedica una "mostra" all'assedio degli anni novanta (a parte la trappola per turisti all'uscita del tunnel della speranza). L’edificio, ancora crivellato dai colpi di mortaio, patisce un'evidente carenza di fondi in contrasto con uno spirito intraprendente. È difficile da trovare e in alcuni punti fatiscente, evidente prova di una colpevole disattenzione internazionale verso chi potrebbe raccontare una storia che punti il faro sui fallimenti dell'Onu e della comunità internazionale al completo.

Pochi giorni dopo, ho conosciuto un sacco di ragazze e ragazzi bosniaci, serbi, croati, kosovari, montenegrini, macedoni, che mi hanno dimostrato ancora una volta la coesione e la voglia di riscatto e giustizia delle nuove generazioni, ma questa è un’altra storia.

La storia che vorrei contribuire a far conoscere oggi, è quella dei Balcani, quella di Sarajevo, non solo la loro ferita più recente, ma tutta quella strada millenaria che li ha resi così unici e forti, così fieri e, finalmente, senza più paura.

Ma per conoscerla, per assaggiare il vero sapore di questo racconto, ancora una volta, non vi resta altro da fare che preparare uno zaino e partire.

sabato 11 luglio 2015

Srebrenica 20 anni dopo: 8000 morti più uno.

“Portatemi le sue ossa, le riconoscerò di sicuro” Hatidža Heren cerca ancora i resti del marito, 20 anni dopo, come centinaia, migliaia di altre mogli, madri, sorelle, figlie rese vedove e orfane da quella mattanza che, vent’anni fa i serbo-bosniaci hanno messo in atto nella cittadina della Bosnia orientale.

Vent’anni, sono passati solo vent’anni da quel massacro, dagli uomini bendati strappati alle loro famiglie per essere sistematicamente uccisi, o per scomparire su camion di cui ancora, ad oggi, non si conosce la destinazione.
8000 volti, passati in diretta in tv, 8000 volti ignoti, 8000 morti di cui si dimentica il nome, e un morto in più, illustre, pesante, seppellito insieme a decine di migliaia di persone nelle fosse comuni delle guerre balcaniche: L’ONU.
Mentre gli autobus pubblici portavano i musulmani bosniaci nei luoghi di esecuzione, mentre le milizie serbe fucilavano uomini 8 ore al giorno, con pausa pranzo, mentre gli Scorpioni e le Tigri si riprendevano mentre trucidavano ragazzi poco più che ventenni pensando di essere i nuovi Lazar l’ONU, la più grande organizzazione internazionale al mondo, è rimasta a guardare.
L’ONU è morta. Fra le granate di Sarajevo e sotto i proiettili di Srebrenica.

L’esperienza jugoslava ha messo concretamente in risalto l’inadeguatezza delle procedure decisionali delle Nazioni Unite e i risultati fallimentari delle operazioni di polizia internazionale per pacificare un conflitto, dopo la gestione positiva di alcuni conflitti (Angola, Salvador, Cambogia Mozambico)  e la relativa aspettativa.
Con le guerre degli anni ’90 aumentarono le guerre interne agli stati, etniche, religiose, ed emerse la necessità di un ONU fautore del peace building, promotore delle condizioni che garantiscano la pace attraverso la stabilizzazione socio economica, oltre che del peace keeping, il mero mantenimento della pace.
A portare a questa prematura dipartita una serie di concause: il sacrificio dell’azione multilaterale a favore di quella nazionale in seguito all’incapacità di conciliare le posizioni diverse degli stati membri, con la testa chinata davanti all’intervento esterno USA, la carenza strumenti completi per adempiere a propri compiti istituzionali, l’incapacità di preservare le “Safe Areas”.
Srebrenica, prima del genocidio, faceva parte di queste aree sicure, ma quando i soldati di Milosevič sono entrati in città avviando una delle pulizie etniche peggiori della storia non c’erano abbastanza soldati per evitarla, visto quanti pochi paesi membri ne avevano inviati. E d’altro canto, nella divisione forzosa decisa dalla risoluzione ONU Srebrenica faceva parte dell’area destinata ai Serbi.
Quando nel ’92 si è tentata la riforma di questa imponente organizzazione per spingere il peace building e ridurre lo strapotere Nato, gli Usa, ovviamente, misero il veto. Ma la riforma democratica non fu sostenuta dai governi occidentali in primis. Imbrigliato dalle politiche nazionali dei singoli paesi l’Onu scrisse il proprio fallimento, che portò ad un’azione in Jugoslavia vittima di limiti politici, istituzionali e militari.

E questa morte cerebrale si manifesta ancora oggi, vent’anni dopo: l’8 luglio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Gran Bretagna ha proposto una risoluzione di condanna del genocidio di Srebrenica. E’ stata respinta, a causa del veto della Russia.  E credetemi, non v’è dubbio sul fatto che quello di Srebrenica sia stato un genocidio: se non bastassero 8000 lapidi ci sono anche due condanne, da due diversi tribunali internazionali per i crimini di guerra. Ancora una volta l’Onu ha fallito, incapace di superare le divisioni interne e di evolvere rinunciando al diritto di veto nel caso di dibattiti sui crimini di guerra.
Dalle ceneri dell’Onu, forse, quello che potrebbe germogliare è un nuovo ruolo dell’UE: spingendo un avvicinamento dei Balcani all’Unione, sviluppando partnership significative, e sostenendo la tangibile richiesta di riforma che proviene dalla base. Anche se il potenziale di aggregazione dei Balcani ha subito una battuta di arresto dopo la crisi economica, il ruolo della società civile continua ad essere cruciale in un panorama di integrazione, e le istituzioni europee, pur con i limiti che ben consociamo, continuano a dimostrarsi più sensibili al passato e al futuro di queste terre così vicine e pure spesso così lontane.
Mentre la mozione all’ONU si arenava infatti, il Parlamento Europeo ha adottato una mozione di ferma condanna per il genocidio, dimostrando un concreto impegno verso la giustizia e contro il negazionismo.

Portatele in Europa dunque, le ossa dell’Onu, affinché possiamo riconoscerle, e da quelle far nascere un nuovo assetto della politica internazionale, in cui la società possa avere successo, laddove le istituzioni hanno fallito.


Per chi l'avesse dimenticato, alcune immagini per ricordare cos'è successo in Bosnia:

Per chi vuole seguire le evoluzioni del processo balcanico:

mercoledì 8 luglio 2015

Orti, attenti, via!

Non sarebbe divertente raccogliere i pomodori e l’insalata per cena nell’aiuola della fermata dell’autobus? O uscire sul balcone per prendere una manciata di basilico fresco per la spaghettata con gli amici a Mezzanotte?

E non sarebbe bello risparmiare sulla spesa al market sotto casa perché le zucchine crescono sul nostro tetto o nell’orto verticale sulla parete vicino all’entrata del condominio?
Lo so che l’immagine fa molto villaggio dei puffi ma in effetti gli orti urbani, i giardini verticali e le aiuole coltivate a patate si stanno diffondendo in molte città del mondo, seguendo movimenti che li vedono come manifestazioni di una nuova economia condivisa o semplicemente i desideri di singoli che vogliono ritrovare il rapporto con la terra un’alimentazione più sana e abbattere i costi sociali oltre che personali della produzione industriale degli alimenti.
Per molti l’orto sta tornando ad essere non solo luogo di produzione di ortaggi freschi, sani e saporiti ma anche una finestra aperta sulla natura e i suoi preziosi insegnamenti. Per alcuni queste esperienze stanno diventando il mezzo per riqualificare spazi urbani abbandonati, per riunire comunità in un’atmosfera di collaborazione, per affrontare le conseguenze della crisi economica sulla produzione e sulle infrastrutture.
Gli orti urbani si stanno diffondendo rapidamente, anche all’interno di grandi metropoli, e anche qui, a Trento dove c’è qualche novità nell’aria: chissà che la nuova rivoluzione non venga portata avanti proprio a colpi di carote, pomodori e piante di lattuga.
da "Concerto Fra gli Orti" a Mezzocorona Ph Liviana Concin

Tutti, ma proprio tutti, possiamo fare parte di questa rivoluzione che è anche un po’ un ritorno alle origini, perché asta piantare qualche seme, in giardino, su davanzale della finestra, sul balcone, nell’aiuola vicino casa, nei cortili delle scuole, nei cantieri abbandonati, nelle carceri.
Perché per iniziare a fare un orto urbano basta mettere in terra qualcosa di pronto a germogliare. Anche quello spicchio d’aglio che sta facendo radici in fondo al nostro frigo o quelle cipolle dimenticate nella dispensa.
Anche perché coltivare qualcosa è un gesto di grande libertà: un ortaggio, un fiore in una pianta aromatica: non dobbiamo niente a nessuno, solo alla terra: non dobbiamo pagare tasse, fare file al supermercato, stare a regole fissate da altre: le uniche regole che vanno seguite sono quelle della natura.
Non per niente infatti attorno agli orti urbani e ai movimenti che coltivano gli spazi abbandonati nelle città si stanno unendo persone con una nuova idea di comunità e di società oltre che id produzione. E’ il caso per esempio delle Transition Town, del commons collaborativo, degli orti  nelle aiuole di Londra, sui tetti di New York, nei cantieri di Milano, nelle fabbriche in rovina di Detroit.
In questa rivoluzione che si fa brandendo una zucchina o un gambo di sedano che sta contagiando tutto il mondo anche Trento fa a sua parte. La fa con i tanti cittadini di tutte le età che coltivano il proprio orticello vicino casa o negli spazi concessi dai comuni, ma anche con progetti inediti, come quello dei Richiedenti Terra, che a Trento, vicino alla fermata del treno di Villazzano hanno messo in piedi un Orto Comunitario che produce cibo genuino ma anche uno scambio di saperi e socialità.
Il progetto nasce con l’obiettivo di favorire la socializzazione attraverso il recupero di attività di agricoltura contadina, che sviluppi nei partecipanti conoscenza del territorio e senso di cittadinanza. La presenza nel gruppo di persone “richiedenti asilo politico” ha dato lo spunto per la definizione del nome del gruppo: “Richiedenti Terra”.

Questa green revolution sta germogliano un po’ ovunque insomma, bastano un pugno di terra, e un seme. Su Wikihow si trovano facilmente informazioni su come coltivare anche con poco tempo e poco spazio una grande varietà di ortaggi.
Per ispirazione segnalo un paio di blog: quello delle transition towns di rob hopkins e il blog “ghost town farm” per scoprire come una ragazza con una manciata di semi stia cambiando la fisionomia di Detroit dopo il fallimento.
Seguite anche i localissimi richiedenti terra, perché oltre che un pezzo di terra possono offrirvi anche un pezzo di torta o uno spritz nei bellissimi eventi che organizzano.


Ancora una volta, anche solo piantando un seme, anche con le bombe di fiori del guerrilla gardening da lanciare negli spazi più grigi delle nostre città possiamo essere parte di un nuovo modo di vivere e concepire la società, e senza accorgercene quasi saremo più green, più collaborativi e vedrete, finiremo anche col divertirci un sacco. 

giovedì 11 giugno 2015

Social Menti Utili

Genialate e idiozie da social network.

Ogni grande rivoluzione tecnologica e sociale è stata preceduta da una grande rivoluzione di comunicazione. Senza i collegamenti transatlantici, il telegrafo, il telefono le rivoluzioni industriali, i boom economici e democratici dell’ultimo secolo e mezzo, perfino le guerre, sarebbero andate diversamente.
Se non avessimo mai visto le foto dai campi di concentramento, la seconda guerra mondiale sarebbe andata nello stesso modo? Magari no, magari vivremmo in un mondo come quello ipotizzato ne “La svastica sul sole” più di 50 anni fa.

Comunicare, condividere non solo è parte del nostro essere animali e umani, ma è un elemento imprescindibile della nostra società e della sua evoluzione.
Ma vi confesso che negli ultimi tempi a giudicare dalle nuove forme di comunicazione mi sto convincendo sempre più che andiamo verso una rivoluzione di idioti, creduloni e fanfaroni.


Vi descrivo la scena che mi ha fatto precipitare definitivamente in questa convinzione:
Interno, giorno, La BisbEtica naviga su Facebook cercando una scusa per non studiare inviando oziosamente inviti ad uno spettacolo di Ascanio Celestini.
Sulla bacheca appare, ben 2 volte, il post del secolo: foto di repertorio di bambini, somali credo, che tendono le braccine scheletriche verso del cibo, con costole a vista e visi disperati, nella cornice nera del post auto prodotto con la frase: Facebook donerà 1 euro per ogni condivisione per sfamare questi poveri bambini.
Millemila condivisioni.
Davvero? Il mio amico Emiliano mi perdonerà se uso la sua parola feticcio ma, davvero?
Davvero ci credete che condividendo una foto, che per altro è del 1991 (quei bambini se sono stati sfamati adesso sono ultratrentenni e altrimenti direi che è troppo tardi), questa fantomatica entità sovrumana chiamata FEISBUC donerà dei soldi a degli imprecisati bambini africani affamati?
Per carità, in Africa i bambini, e gli adulti, che muoiono di fame ci sono ancora, davvero: sono gli stessi che annegano sui barconi che attraversano il Mediterraneo, sono gli stessi che vengono qui a “rubarci il lavoro”, sono proprio lì, su quelle carrette del mare che la Meloni vuole bombardare.
Ci sono bambini che muoiono di fame e malnutrizione anche in Asia, Nel centro e sud America, nell’est Europa, nelle periferie delle grandi città.
Sono lì, non in quella foto.
Credete davvero che i chirurghi aspettino in sala operatoria di vedere salire i like sotto la foto di un bambino ritratto in primo piano con la cannula dell’ossigeno per iniziare a operarlo?

Da questo momento di estrema dimostrazione del fallimento del darwinismo sono partite alcune elucubrazioni: quand’è che l’utilità di questo nuovo e fantasmagorico strumento dell’internet si è trasformata in un megafono per cretini?
C’è qualcosa di molto sbagliato in come si stanno evolvendo le comunicazioni sui social: migliaia di persone che vomitano la loro vita privata in bacheca, anoressiche che postano le foto dei loro pranzi da McDonald’s, Marie Goretti che a mezzanotte letto, coperta, camomilla che hanno la bacheca intasata di foto di cocktailoni in primo piano, personaggi incapaci di distinguere la congiunzione disgiuntiva “o” dalla voce del verbo avere “ho” che pontificano sull’italianità, centinaia di foto identiche di gente che corre mentre gli spruzzano addosso del colore.
Il problema, vero, è che io di queste cose ne parli e ne scriva. Che veda più spesso i post che ci mettono in guardia dalle arance infettate col virus HIV che vengono dalla Libia, le Bufaline, che quelli che mettono in guardia sul surriscaldamento globale, dicesi signor Reale.
Che abbia la bacheca intasata da re-post di Salvini, nonostante il mio minuzioso e continuo lavoro di pulizia della friends list, più che da quelli di Gino Strada.
A dire il vero il dramma è che io, come tutti voi, per comunicare usi termini come post, re post, like, e friends list.
Mi fa rabbia che il tempo, tantissimo, che passiamo sui social network, si riempia di bufale colossali pompate da inguaribili creduloni, su morti di personaggi più o meno famosi, sull’UE che vieta di coltivare l’orto in casa, sulle scie chimiche, che le notizie non servano per tenere informata la società ma siano impostate ad arte per scatenare i leoni da tastiera in centinaia di commenti aggressivi, sgrammaticati, inutili.

Avete la soluzione per tutto? Per l’immigrazione, per la crisi, per le aggressioni dell’orso, per i matrimoni gay, per curare il cancro con il bicarbonato?
Datevi da fare, entrate in politica, aprite una clinica di cure a base di cremine antiage che tolgono 90 anni di rughe in 90 secondi, polverine per dimagrire, frullati di proteine per scolpire, e mi raccomando, tutto questo continuando a dire che omeopatia e fitoterapia sono “robe da coglioni”.

Mentre mi stavo slogando Atlante e Epistrofeo a forza di scuotere la testa in segno di disgusto però, forse per il movimento della mia materia grigia in tutto quello spazio vuoto, ho avuto la vera illuminazione.
Non dovrei essere lì, a leggere le bufale, a deprimermi per il QI medio dei miei connazionali, ad augurare iettature a certi idioti.
Perché questi strumenti, internet, social, e quant’altro, sono sì i grandi veicoli della rivoluzione del nostro tempo, ma sono pilotati, male, e con i soliti sistemi, tutt’altro che rivoluzionari.
La “gratuità” delle ricerche su Google, dei nostri diari su Facebook, delle nostre belle foto su Instagram la paghiamo con le nostre informazioni, e spesso con la nostra libertà.

Credete davvero che la visibilità di eventi, personaggi, notizie, dipenda dal loro valore? Col cavolo. Dipende da un misterioso algoritmo che sostanzialmente funziona in un modo solo: paga, e fa ciò che vuoi.
Bello questo concerto con 8000 partecipanti: paga e fa ciò che vuoi.
Interessante questo post con 1500 like: paga e fa ciò che vuoi.
Che seguito questo personaggio, 30.000 follower: paga, e fa ciò che vuoi.
E questo meccanismo contagia, giornali, radio, televisione, siti di informazione.
E allora che ci faccio qui, su un blog a scrivere un post che finirà poi su un social network?
Perché credo che siano le persone a decidere come usare le cose, e non il contrario.
Questi strumenti, che sono solo questo, strumenti, come una forchetta, un’accetta, una pala, possono essere usati nel male, o nel bene. Sono io che decido se usare la forchetta per papparmi una fiorentina o un’insalata, non è la forchetta che è vegetariana, sono io che decido se usare l’accetta per uccidere mia moglie e la pala per far sparire il corpo, o di farne strumenti per costruire la casetta sull’albero dei miei figli.
Sono io che posso decidere di usare internet, i social network , questo potentissimo strumento per fare informazione vera invece che per diffonder bufale, per creare una rete di economia collaborativa invece che un network marketing, di usare Youtube per condividere conoscenza a livello globale con i MOOC invece che per guardare i video di Andrea Diprè.

E’ l’era del digito ergo sum, e allora possiamo scegliere di essere quelli che scommettono sui pro di questo strumento, invece che sulle sue, innumerevoli, pecche e strumentalizzazioni.
Alcune belle cose che possiamo fare con questi strumenti, diversamente da dieci anni fa: finanziare, davvero sta volta, progetti ecampagne con il crowdfunding, regalare e ricevere in regalo, condividere, prestare, vestiti, case,  macchine, viaggi, vacanze,  cibo nelle piattaforme di sharing economy e commons collaborativo, informarci, seriamente, su quello che accade dall’atra parte del mondo come se succedesse nel cortile di casa e interrogassimo la nostra vicina impicciona. Lanciare e sostenere campagne chespostano opinioni, e a volte salvano vite.
Accendiamo il cervello prima che lo smartphone la mattina, la coscienza prima dello schermo del computer.
Perché una rivoluzione la fanno le persone che la vogliono, non gli strumenti che la veicolano.


Ah, e se ve lo state chiedendo, sì, è proprio di voi che stavo parlando.

mercoledì 3 giugno 2015

Meravigliosa fatica

Fatica.

Fino a qualche anno fa la prima parola che mi veniva in mente quando guardavo uno spettacolo teatrale, una performance, un balletto, era bellezza. Ora quando guardo un attore su un palco, una ballerina sulle punte, un circense sul filo penso “Fatica”.

Dopo tante esperienze da spettatrice e qualche sporadica da protagonista vedo quanta fatica, quanto amore, quanto sforzo, quanto impegno, quanta dedizione si nascondono dietro quell’unico gesto perfetto, dietro il tono giusto con cui lanciare quella frase nella platea, dietro il balzo armonioso di una ballerina.
Non solo i muscoli che si contraggono, la concentrazione fra le pieghe del volto, il sudore che cola sulle fronti, vedo lo sforzo che sta dietro, dietro al sipario, dietro agli applausi, ai costumi di scena al respiro profondo prima del balzo.

Gli anni per imparare un passo, i mesi per trovare il risuonatore giusto con cui dire una battuta, i giorni passati a riprovare un numero, una nota, le domeniche investite per trovare l’energia perfetta per raccontare la storia.


Vedo la dedizione di chi compie lo sforzo ulteriore di unire all’amore per l’arte quello per il messaggio, l’ardore negli animi di chi mette in scena uno spettacolo di teatro civile, fra le note di un musicista che racconta una storia. Riesco a scorgere quanto si possa essere nudi e soli dietro a una maschera di fronte ad una platea gremita.

E’ in questa fatica che vedo la bellezza. La percepisco ogni volta che una battuta colpisce uno spettatore aprendo per un secondo uno spiraglio sull’immenso lavoro che c’è dietro, al momento in scena, alla mezz’ora sul palco, sento la purezza del lavoro dell’artista quando una nota si fonde a una parola e a un movimento per diventare qualcosa di molto più grande: una scintilla di universo.

Da questa fatica, da questa bellissima fatica, mi lascio travolgere quando sono spettatrice, quando di fronte a me c’è chi mette in gioco se stesso non per gloria, non per fama: perché non potrebbe fare altrimenti.
E’ questa, questa la bellezza che salverà il mondo di cui parlava Dostoevskij, la bellezza dello sforzo di dar vita a amori, orrori, ideali, avventure, magie, microcosmi e universi, di fare della propria carne la carne del mondo.

Lì c’è verità, lì c’è bellezza. Premiamo questa fatica, ogni volta che possiamo.
Anche perché, c’è tutta un’altra fatica, ancora più invisibile: quella di chi si impegna perché tutta questa bellezza arrivi a portata di mano, e di cuore, per ognuno di noi.

Qui, vicino a casa mia, fra Mezzolombardo, San Michele e Mezzocorona, sta per iniziare un festival, Solstizio d’Estate, che da 25 anni porta musica, teatro e danza in paesi da poche migliaia di abitanti. E’ il risultato di mesi di lavoro, di volontari, di giovani, che credono che valga la pena perdere, serate, notti, settimane d’estate per potare in scena chi racconta storie. Che credono che questa bellezza meriti tutte le loro energie, anche se in platea dovesse esserci un solo spettatore ad applaudire per quella splendida fatica.

Orti urbani, bombe atomiche, circhi, giardinieri nomadi, reginette di bellezza, orrori, stupori, suicidi, germogli, coltivatori di alberi secchi, pescatori di anime, cantastorie d’estate, amore, disamore, violenza, coscienza, sentimenti, dialoghi, pentimenti, nani, ballerine, fantasmi, fenomeni da baraccone, pianoforti, chitarre, voci, spartiti, copioni, attori, musicisti, cantanti… storie.
Quanta fatica ci vuole per farli stare tutti su un palcoscenico lungo più di un mese?
Tantissima, per fortuna, perché la fatica è bellissima da vedere.

E se credete, come me, che la bellezza salverà il mondo, venite a vedere cosa c’è dietro questo sipario, allora.
21.30.

Mezzocorona.


mercoledì 13 maggio 2015

Che succede in Mecedonia?

O meglio, sapete che sta succedendo qualcosa di molto preoccupante ai confini dell’Europa?

La notizia è passata in sordina nei giorni scorsi, e quando è arrivata è stata condita con un’accozzaglia di luoghi comuni e manifestazioni di cattivo giornalismo all’italiana. 
Forse, se vi siete proprio proprio voluti informare avrete letto qualcosa del genere: “Macedonia, scontri con gruppi armati al confine con il Kosovo: almeno 5 morti. Forze speciali macedoni assediano un quartiere musulmano di Kumanovo, al Nord del Paese. Le autorità: conflitto con "un gruppo armato arrivato da un paese vicino, ci sono 5 poliziotti morti e 30 feriti. Possibili vittime anche nei commando".

Probabilmente la notizia sarà finita nel dimenticatoio del nostro cervello dove accatastiamo tutti gli attentati, le stragi, i drammi legati al terrorismo fuori dai confini occidentali.  Ma la storia in Macedonia, non è del tutto chiara.
Innanzitutto due delucidazioni sul Paese dell’Est Europa: è uno stato della penisola balcanica incastrato fra Albania, Grecia, Kosovo, Serbia e Bulgaria. Non è riconosciuta formalmente come Repubblica di Macedonia ma solo come Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia a causa della disputa sul nome avviata dai vicini Greci, che temono che lo Stato confinante avanzi pretese tese a ristabilire i confini della Macedonia Storica, che comprende anche una regione nel nord della Grecia.
Oltre alla disputa con la Grecia, la situazione in Macedonia è delicata per la presenza di oltre un 20% di cittadini di etnia albanese, con la lingua albanese riconosciuta come ufficiale dove quest’etnia rappresenti più del 20% della popolazione.
Circa il 64% dei macedoni sono ortodossi, albanesi, turchi e rom sono per lo più musulmani.

Questi tre elementi sono sa tenere presenti perché al contrario di come se ne è parlato, e come temo se ne tornerà a parlare, quello che sta succedendo in Macedonia non è una crisi di origine etnica, tantomeno religiosa.

Negli ultimi mesi migliaia di sostenitori dell’opposizione socialdemocratica hanno iniziato a contestare aspramente il governo. L’esecutivo del premier Nikola Gruevski è accusato di aver insabbiato l’omicidio di un ragazzo, Martin Neskovski, ucciso da un poliziotto nel 2011. Inoltre, secondo l’opposizione, Gruevski  avrebbe messo in piedi un sistema di intercettazioni illegali nei confronti di politici, leader dell’opposizione, giornalisti, imprenditori, leader religiosi e magistrati. Quasi 20.000 persone.
Sabato 9 maggio i militari governativi Macedoni sono entrati a Kumanovo, una città al confine con Serbia e Kosovo, con mezzi blindati e artiglieria, per catturare, ufficialmente, un gruppo di “ribelli” che avrebbe attaccato un posto di polizia. Negli scontri sono morte 25 persone, far cui 6 poliziotti. L’esecutivo ha calcato la mano sulla forte componente etnica in questo scontro, i “ribelli” erano albanesi. Agitare lo spettro della guerra civile è un tentativo disperato di spaccare il fronte della protesta, ma nei fatti le manifestazioni in corso a Skopje, nella capitale, vedono unite le due comunità, la maggioranza slavo-macedone la popolazione di etnia albanese. 

Un tentativo di Divide ed impera? Un piano di strumentalizzazione di un atto violento non nuovo nella sfera balcanica? Mentre opposizione e maggioranza si rimpallano le responsabilità, sotto la superficie potrebbe nascondersi un’eventualità ancora più preoccupante…
Nel territorio macedone sta per partire la costruzione di un nuovo gasdotto, una continuazione del condotto “South Stream” che dalla Russia porterebbe gas naturale a prezzo più basso in Grecia, e quindi in Europa. E qui, non solo tabloid e complottisti ma anche alcuni fra i più autorevoli quotidiani dell’Est Europa, ravvisano uno di quei tentativi di alzare un polverone da gettare negli occhi del pubblico tanto caro a una certo Stato del mondo. A un certo Stato che in tante crisi ha messo uno zampino che si chiama Cia.
Potrebbero essere solo supposizioni, ma un po’ di puzza di bruciato, anzi, di metano, si sente eccome.
Nel frattempo due dei ministri del governo Guevski si sono dimessi, assieme al capo dei servizi segreti, Miajalkov, accusato di avere rapporti con la banda criminale albanese al centro del disastroso intervento a Kumanovo, ma il rimpasto sa di lavoro di facciata, una mano di fondotinta su un volto in putrefazione.
Il banco di prova della società civile del #protestiram sarà il prossimo 17 maggio, con la manifestazione antigovernativa prevista nella capitale, e con i suoi esiti.

Spero di sbagliarmi, ma credo che ci sarà qualcosa di cui parlare. Spero di sbagliarmi, ma credo che comunque difficilmente se ne parlerà.
#EyesOnMacedonia: restiamo a concentrati, o potremmo trovarci a restare a guardare, ancora una volta, lo scoppio di una crisi nei Balcani.

Per seguire gli sviluppi: La BisbEtika, e  East Journal.

martedì 21 aprile 2015

Abitare l'ambiguità

Mauro Cereghini è il terzo intervistato eccellente di “operazione cooperazione”. Discutere con lui di sviluppo e cooperazione internazionale è stata una fonte di spunti e riflessione che sono felice di condividere con voi. Per esempio, a cosa pensate se leggete di “animatori di comunità”? Se pensate ad un villaggio turistico e al karaoke questa intervista vi interesserà. 

Cereghini attivista, ricercatore e formatore sui temi della mediazione e della cooperazione internazionale, in particolare nell’area balcanica, ha lavorato all’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace di Rovereto e alla Fondazione Alexander Langer di Bolzano, è stato direttore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso e della Cooperativa Unimondo. Attualmente è presidente del Centro per laFormazione alla Solidarietà Internazionale di Trento, organizzazione impegnata a migliorare la conoscenza e le abilità di chi è coinvolto nella cooperazione internazionale.
Cooperazione sviluppo e solidarietà, cosa significano?
Le parole sono importanti, è giusto fare attenzione, ma a volte sono un gioco e bisogna capire cosa si intende. In campo internazionale cooperazione internazionale e solidarietà internazionale sono sinonimi, che intendono una serie di cose. Tradizionalmente la cooperazione internazionale riguardava il rapporto con un altrove: politiche economiche, sanitarie, ambientali, e allo sviluppo. Si intendeva quella parte legata alle politiche del cosiddetto sviluppo. Per l’ambiguità si è cominciato a parlare di solidarietà per intendere la cooperazione no profit. In generale poi, se si parla di solidarietà come aiuto, io lo trovo un termine un po’ superato. Ci sono tentativi di riformulare il concetto, come interscambio fra realtà diversamente ricche, in una logica di interscambio più che di trasferimento.
Dal su punto di vista i progetti nati da realtà locali dei paesi in via di sviluppo, hanno maggiori possibilità di successo della cooperazione che “viene da fuori”?


Bisogna distinguere l’intervento di emergenza e la cooperazione continuativa. Nel primo caso l’aiuto esterno è vitale, ma il cambiamento in una prospettiva continuativa non possono che farlo attori locali, con risorse locali, che possono essere incentivate anche da fattori esterni. Posto che non sono un purista del “solo loro possono”: ogni comunità ha le proprie problematiche e malfattori. Soprattutto in un mondo attuale lì e qui sfumano. Si può benissimo avere un attore locale eterodiretto che è la risorsa del progetto, così come un attore esterno che può avere competenze utili. Sfumerei questo confine.  Non esiste l’idea di trasportare il cambiamento.
Chi sono dunque e che scopo nel lavoro dei cooperanti?
Esistono operatori umanitari (sul campo), cooperanti e tecnici, più presenti nell'immaginario così come ad esempio la figura del missionario. Tutte hanno delle peculiarità e le rispetto, il testimone e il professionista: hanno comunque caratteristiche positive e negative. Credo che una figura interessante da sviluppare sia quella degli “animatori di comunità”, di reti di interscambio, per così dire: persone e realtà che sappiano essere trasformatori sociali là e qui. Se una persona non si integra nelle dinamiche di cambiamento sociale di Trento difficilmente sarà in grado di farlo a Quito. Mi interessa ad esempio chi si lavora nel commercio equo e solidale internazionale e si impegna a conoscere i produttori con trasferte nei luoghi dove lavorano pur tenendo aperta la propria bottega, magari, a Trento. 
Si può fare cooperazione internazionale anche stando a casa propria quindi? 
Ci si deve muovere. E’ necessario per lavorare in questo settore. Ma bisogna restare legati a un luogo. Anche costruire relazioni di interscambio è cooperazione, quindi anche stare “a casa propria” può essere un modo per fare cooperazione in un certo senso. Magari tentando prima di scoprire quali parti di casa nostra sono già occupate dal mondo, cercando poi di costruire  uno scambio positivo con le risorse del proprio territorio e di quello altrui.

Molti fra quelli che lavorano in questo campo, affermano che la cooperazione non funziona quando tutto è regalato. C’è una cooperazione che funziona meglio di un’altra?
Se non siamo in situazioni di emergenza, quando solo l’aiuto concreto ed immediato salva. Sto parlando di emergenze vere, calamità e guerre, non emergenze come “l’emergenza immigrazione” che non lo è. Ma se usciamo dall’emergenza stretta è vero, gli aiuti uccidono, se intesi come solo donazione. Sono nocivi perché sono unilaterali: è indispensabile un legame che dia potere e responsabilità, di scelta di coinvolgimento, ad entrambe le parti. Il solo dono mantiene il potere in chi lo concede. Si crea dipendenza, superiorità, invasività.
Una cooperazione allo sviluppo che funziona dovrebbe mirare a rendere obsoleta se stessa. Stiamo andando in questa direzione?

La valutazione è diversa da Paese a Paese. Prima ancora che pensare alla dimensione materiale della cooperazione come succede in molte realtà, vorrei che si prestasse attenzione alle valutazioni. Che ci fossero pensieri prima di azioni e di soldi, pensieri di cambiamento. La cooperazione ha fatto la propria crescita culturale, per lo meno dichiara l’interesse per la partnership e l’ownership locale. Lo scarto fra il dire e il fare c’è. Io vedo contemporaneamente mondi fermi che ripetono l’uguale, che nominano ancora i paesi in via di sviluppo, nord e sud del mondo, e vedo approcci più legati alla realtà e ai dati di fatto. La direzione principale è quella dall’internazionalizzazione come si vede dal cambio di posizione di Brasile,  India e Cina, ad esempio.

E’ possibile spingere uno sviluppo che sia sostenibile? O al momento conta più spingere l’uscita dalle crisi umanitarie e sociali?

Intanto bisogna capire dov’è il perno della sostenibilità, capire l’equilibrio fra sostenibilità ambientale, sociale e culturale. Non ci sono progetti sostenibili o insostenibili tout court. Detto questo, certo bisogna assumere un’ottica di lungo periodo. In passato ci sono stati enormi esempi di progetti che per sostenere un aspetto ne hanno affossato un altro. In generale più che di ricette o di modelli trasferibili bisogna parlare di scoperte, riscoperte e unicità, territoriali e culturali. La chiave dello sviluppo resta ambigua, perché trasformazione significa inevitabilmente acquisire qualcosa e perdere altro. Ovvio che gli spot di sostenibilità, i marchi fair trade, equo e sostenibile, possono essere ormai inseriti in qualsiasi tipo di progetto. Bisogna vedere se è reale l’impegno. Sapendo che non c’è bianco o nero. Il commercio equo e solidale lo è? Siamo in un mondo di contraddizioni, la purezza, per fortuna, non esiste. Bisogna saper abitare l’ambiguità. Non si tratta di risolvere un’equazione già scritta ma di avviare progetti, di avvicinarsi all’equilibrio. In questo senso il cooperante non può essere il singolo, perché ci si deve confrontare con una realtà nel suo complesso: a volte è più importante il pensare a cosa si fa che il farlo. Bisogna creare una comunità di pensiero che si incontra, perché nessuno ha le ricette, e chi pensa di avere le ricette, mente.

venerdì 17 aprile 2015

Il caro prezzo.

Oggi ho deciso di trasformarmi nell’Iva Zanicchi d’antan è lanciare una nuova serie di “Ok il prezzo è giusto”. Vorrei chiedermi, e chiedervi, se davvero sappiamo quanto costano gli aggetti, le esperienze e i servizi che acquistiamo. 

Ad esempio, in linea di massima, le brave massaie e gli studenti fuori sede più degli altri, sappiamo tutti il prezzo di un kilo di pasta, di un litro di latte, di un kilo di macinato di manzo, di una pianta di lattuga. La situazione è già più complicata se ci chiediamo: quanto costa un paio di scarpe? Una crema per il viso? Un paio di Jeans? Un automobile? La risposta non è più così semplice…. Parliamo di scarpe di alta moda in pelle di pitone albino o di un paio di flip flop dei grandi magazzini? Di una Ferrari o di un macinino da 50 cavalli? Senza stare a disquisire sugli elementi che contribuiscono a determinare il prezzo di un bene, i materiali, la pubblicità, il trasporto e via dicendo, è bene sapere che ciò che determina il prezzo di un prodotto è l’equilibrio tra domanda e offerta.
Questo significa che se un jeans viene venduto a 20 euro e un pantalone dello stesso materiale di una nota Maison di moda viene venduto a 800 e perché chiediamo di spendere 800 euro per un capo di vestiario. Non c’è dubbio che il jeans di sartoria sia realizzato con materiali di maggiore qualità, magari in Italia e quant'altro, ma questo non giustifica un prezzo 40 volte superiore al suo omologo. E’ il consumismo, bellezza.
 Il problema, la spina nel fianco che mi tiene scomoda rispetto a questo meccanismo è che, in effetti, nessuno di noi ha idea di quale sia il reale costo di ciò che compriamo.  Ogni chilo di pasta, di carne e di verdura, ogni paio di scarpe, ogni automobile oltre al prezzo sul cartellino ha un costo sommerso, in termini di esternalità negative.
 Queste esternalità non sono altro che le conseguenze derivanti da una certa attività, produttiva in questo caso, che pesano in termini monetari o di sacrifici, sull’intera comunità, e non sui produttori. Un esempio: la produzione di un pallone da calcio costa, mettiamo, 1. Il produttore cercherà tutti i modi per abbassare il costo di produzione, dislocando l’azienda dove il costo del lavoro è minore o le regole per il rispetto dell’ambiente sono meno rigide. Probabilmente riuscirà ad abbassare il costo a 0,5. Noi, che fino a ieri compravamo il pallone a 4 magari lo potremo comprare a 2, o comprarne 2 al prezzo di uno!
Abbiamo risparmiato? NO.
Per produrre quel pallone da calcio hanno inquinato un fiume con le scorie, avvelenato i lavoratori con le sostanze chimiche, abbattuto un pezzo di foresta pluviale per installare la fabbrica. Questi costi, sia in termini monetari, gestioni delle conseguenze ambientali da parte degli Stati, aiuti allo sviluppo per sostenere i lavoratori, che di rinunce, non avremo più la possibilità di bere da quel fiume o respirare l’ossigeno prodotto da quella foresta, vengono pagati da ogni individuo. Se potessero ricadere sul produttore magari improvvisamente il pallone costerebbe 6. Il che non sarebbe necessariamente un dramma. Prima di tutto perché sarebbe uno stimolo per la società civile a chiedere una produzione sostenibile, la produzione intensiva non lo è in maniera esponenziale, in secondo luogo perché ci farebbe capire che non ci servono 2,3,4,5 o 6 palloni.
Il disboscamento nella foresta di Willamette, Oregon.

Non ci serve mangiare carne tutti i giorni, se per produrre ogni etto di carne vengono abbattuti sei metri quadri di foresta pluviale con i 75kg di forme di vita che contengono. Non ci serve una macchina a persona in una famiglia. Non ci serve il nuovo deodorante che fa le ascelle glitterate, o l'idromassaggio a ozono per cani. Non ci serve cambiare telefono ogni 3 mesi. Credetemi, non ci serve. Non ci serve prendere un antibiotico per il mal di gola, non ci serve.  Il “benessere” che ormai associamo all’avere tutto, e più, e in avanzo, dal mio punto di vista, è tutta un’altra cosa. Io sto bene quando sento che quello che compro è necessario, quando scelgo un prodotto più etico e meno impattante, quando sono in grado di fare delle rinunce, perché il mio “benessere” è la speranza di non mandare le prossime generazioni a sbranarsi a vicenda per acqua, cibo e aria. Il dramma, è che mentre nell’Occidente bulimico qualcosa si sta muovendo nella direzione della decrescita e della sostenibilità, ebbene sì ci sono sempre più persone che vivono senza macchina, senza sprechi e addirittura senza soldi, l’industria continua a creare bisogni. E purtroppo, sta allargando questo modello anche alle economie emergenti e ai nuovi giganti. Ci sono sempre più realtà che hanno concentrato sulle zone povere e in via di sviluppo il proprio impegno per creare bisogni.
Coca Cola ha creato il kit per trasformare le bottiglie di plastica in annaffiatoi, giocattoli e porta spazzolini. Lo regala con ogni bottiglia in qualche (non si capisce quale) Paese del "terzo mondo". Bene. Bravi. Ma a loro, come a noi, non serve la coca cola, né la bottiglia di plastica. Ai bambini guatemaltechi non serve essere nutriti a bibite gasate e patatine, quando le loro famiglie non riescono a comprare riso e fagioli per evitare che muoiano di malnutrizione. Alle donne colombiane non serve un kit di creme “antirughe” da 500 dollari, perché ogni 2 minuti muore una donna di parto, e la gran parte del paese vive con meno di 4 dollari al giorno nel mezzo di una guerra civile che dura da decenni e ha fatto 270.000 morti.
Eppure, lì e altrove le multinazionali stanno esportando pubblicità, catene di negozi e vendite piramidali. Eppure ci stanno riuscendo a convincere le donne indiane che a loro serve la borsetta firmata, le famiglie che vivono negli immondezzai che la tv satellitare è necessaria. A dire il vero sono anni che questa subdola infiltrazione va avanti: La Nestlè è stata chiamata in causa perché in sud e centro America, in alcune zone dell’Africa e dell’India ha spinto così tanto, attraverso campioni gratuiti e spot, il consumo del latte artificiale che la mortalità infantile ha subito un aumento, poiché le donne non allattavano più al seno.
Il benessere, lì, come qui, è un’illusione, una bugia, un tira e molla con la parte più fragile dell’animo umano.
 Finchè non capiremo questo saranno inutili le campagne contro i big della moda che sfruttano i lavoratori in India, contro i produttori di carne che disboscano l’Amazzonia, le multinazionali, le case farmaceutiche, perfino i mercanti d’armi. Quelle sono solo le parti superiori di un castello di carte, alla cui base ci siamo noi e i bisogni che ci hanno convinti di avere. E’ per questo che dobbiamo comprendere prima di ogni altra cosa il vero costo di ciò che compriamo. E’ per questo che dobbiamo allargare la visione alle conseguenze e spingere la nostra evoluzione empatica, sociale, culturale e spirituale verso la consapevolezza. La consapevolezza che per permettere ad alcuni di avere troppo, più che troppo, la maggior parte non ha niente oltre la disperazione. La consapevolezza che se il piano funzionerà, se tutto il mondo comincerà a consumare come noi, il sistema imploderà. Addio macchine, addio jeans da 800 euro, addio creme e cremine, benvenuto medioevo.
La consapevolezza che l’essere è quello a cui dovremmo aspirare, più che all’avere, che la vera ricchezza sta nell’equilibrio, fra natura e uomo, fra fame o obesità, nell’empatia, nella felicità, nella coesione, nella pace. La ricchezza c’è, si tratta di mobilitarla. Io sto cercando di arricchirmi, e voi?

lunedì 30 marzo 2015

Santi,poeti e cooperanti: lo sguardo sul mondo della cooperazione italiana di Roberto Belloni



Roberto Belloni è un professore associato dell’università di Trento. Ma non è solo per la sua competenza accademica che ho deciso di parlare con lui, ancora una volta, di cooperazione e società. Ero convinta che il suo punto di vista sarebbe stato utile e interessante, non solo per le pubblicazioni, per gli articoli e il ruolo che riveste: ma perché Roberto Belloni prima che dietro una cattedra è stato sul campo. E’ il professore che non ti aspetti, che è stato in Ex Jugoslavia a lavorare per la democratizzazione quando il bubbone del conflitto etnico e della guerra civile era appena scoppiato, quando della cooperazione si parlava appena. E la mia convinzione, a giudicare da quest’intervista, era ben riposta.

Tanti anni a contatto con la cooperazione internazionale, sia sul campo che come accademico, come è cambiato il ruolo di organizzazioni internazionali e cooperanti nel corso della sua esperienza?
Certamente nell’ultimo periodo si è avviato un processo di professionalizzazione, accentuato negli ultimi anni. Negli anni ’90 era possibile entrare nel mondo della cooperazione con poche competenze, mentre la figura del cooperante di oggi mi sembra si sia progressivamente arricchita di capacità tecniche e manageriali, oltre che organizzative, soprattutto all’estero. Per fare questo lavoro non basta la vocazione, sapere la lingua, sapersi rapportare alle popolazione: è necessario avere competenze, perchè il settore si è aziendalizzato in termini sempre più manageriali. E’ tutto molto più burocratizzato. Vent’anni fa c’era più improvvisazione, eravamo più sprovveduti forse. Era un approccio più avventuristico, ma non necessariamente il nuovo assetto è più valido: da un punto di vista ci sono più conoscenze, dall’altro si è persa la creatività, l’intraprendenza individuale. C’è un trade off fra le due cose.
A fianco ad un numero crescente di giovani che mirano a fare della cooperazione il proprio mestiere, crescono anche la diffidenza e le critiche verso le organizzazioni internazionali, governative e non governative, qual è il suo punto di vista rispetto a questa situazione a due facce?
Quella che si è diffusa, specialmente nel nostro Paese è una visione strumentale, volta a giustificare i tagli alla cooperazione, che non sono dovuti, come spesso si tende a pensare, al fatto che la cooperazione sia pessima, il meccanismo è contrario: visto che i soldi non ci sono allora viene descritta in maniera pessima (basti pensare ai tagli al settore apportati dal governo Berlusconi). Nell’agosto 2014 c’è stata una nuova legge quadro per disciplinare gli aiuti internazionali, che prevedeva la realizzazione di un’agenzia, mai creata. Ma quello che traspare principalmente dalla legge è che la cooperazione interessa più che altro come ponte di lancio per industrie italiane, come rapporto con attori privati. Per i giovani, forse l’interesse in controtendenza con l’opinione generalizzata è suscitato anche dalla difficile crisi economica e dalla mancanza di alternative tradizionali.
A guardare le reazioni della società rispetto agli ultimi eventi sembra che il ruolo di cooperanti e corrispondenti sia sempre più visto sotto una cattiva luce, è reamente così? Quale potrebbe essere secondo lei il motivo?
Molto dell’astio della società mosso dalle storie personali dei cooperanti. Nel caso di Greta e Vanessa, ad esempio, molte delle reazioni sono state mosse dal fatto che questo è un paese conservatore: il fatto che fossero donne è sufficiente a far accendere l’astio, anche nei giovani. Forse per i più avrebbero dovuto restare qui, fare figli e fare le casalinghe. Vittorio Arrigoni, pur essendo di sinistra era un uomo, e le critiche sono state più sparute.
C’è una cooperazione giusta e una sbagliata?
In termini semplicistici: starei lontano dalla questione preparazione (sprovvedute, o non sprovvedute, giusto o sbagliato).Direi che ci può essere un cooperante bravissimo, dal punto di vista tecnico, un ingegnere ad esempio, che magari non ha le conoscenze socio politiche del posto dove lavora: anche una coop perfetta dal punto di vista tecnico può essere inutile o dannosa.
Un esempio: una strada può essere ben costruita, ma potrebbe essere usata da mezzi militari per peggiorare le condizioni di una parte della popolazione in Paesi in crisi. La cooperazione “buona” tiene in considerazione gli aspetti del contesto in cui interviene, e dei possibili impatti dell’intervento. Quella “non buona” è quella strettamente tecnica, e c’è ancora. Agli inizi degli anni’90 il Rwanda era un esempio di cooperazione che funzionava, perché il pil era cresciuto dopo l’intervento internazionale, e c’era momentanea pace, e progresso. Pochi anni dopo è stato teatro di un genocidio da un milione di morti..
Com’è cambiato il ruolo delle istituzioni nazionali e sovranazionali rispetto alle crisi umanitarie? Ci sono differenze fra la guerra civile nei Balcani dei prima anni novanta e l’attuale crisi in Siria?
Al di là dei dettagli della situazione specifica, in realtà le differenze sono pochissime, Dai Balcani in avanti la teoria e la pratica degli interventi è stata mossa dal contenimento, ovvero dall’intervento palliativo locale che ha però come scopo ultimo tutelare i paesi occidentali, contenendo le migrazioni eccessive. L’atteggiamento di fondo è di aiuto strettamente umanitario, senza intervento politico forte. Perché una visione politica rispetto alla soluzione non c’è. Un intervento dei caschi blu in Siria non credo proprio ci sarà, almeno per il momento. Manca una visione strategica.
Cooperanti e ONG, come sono tutelati a livello nazionale?
C’è tutela formale tale per cui le ONG possono chiedere riconoscimento, hanno quindi facoltà di presenziare come interlocutori ai tavoli dove si decidono le gestioni delle crisi. Sull’aspetto del lavoro sul campo ci sono più problemi, in particolare in situazioni di conflitto. I rischi inevitabilmente ci sono, fanno parte dell’essenza stessa di questo lavoro. Le soluzioni non sono così immediate: si può tentare di far capire ai contendenti che non si è schierati (ad esempio come fa Emergency, con medici e personale disarmato, che cura tutti). Un secondo approccio è assumere milizie locali (come hanno fatto alcune ONG Italiane in Somalia) pagate. La terza è quella di affidarsi a truppe internazionali se presenti sul territorio, lavorando a stretto contato con loro. Il problema sta nel fatto che ci si associa all’esercito nel bene e nel male, e il cooperante diventa un target, restringendo lo spazio umanitario. L’Italia tutela i suoi cooperanti, ma in quanto cittadini all’estero, senza normative dedicate.
E’ necessaria una maggiore consapevolezza? Una maggiore informazione? Se sì secondo lei da dove vengono queste carenze: informazione, istituzioni, istruzione?
Sì. Ci sono carenze nel sistema dell’informazione, che tende a semplificare e non approfondisce. Non si parla tanto di esteri, e se lo si fa lo si fa con una prospettiva nazionale. Alcune settimane fa in Libia erano tutti pronti a intervenire, ma pochi pronti a capire cosa stava succedendo. E su questo hanno responsabilità politica e informazione. L’istruzione è anche molto lacunosa, ma ci sono casi di progetti pilota nelle scuole per rendere i ragazzi più consapevoli, anche se sospetto che le iniziative siano più individuali, mancano quelle sistematiche.
Come e attraverso quali canali è possibile avvicinare il pubblico a realtà come la cooperazione e a quelle in cui la cooperazione opera?
C’è qualche canale utile. Riviste, siti: Internazionale è uno strumento abbastanza utile, Limes, e c’è tanto in lingua inglese, il Guardian Weekly, L’Economist, che pur da un punto di vista conservatore copre bene la politica internazionale. E poi i siti specializzati: sul medioriente funziona molto bene Haaretz. Ma al di là dell’offerta informativa, purtroppo nel pubblico c’è molta pigrizia. Le notizie si consumano velocemente, senza approfondirle.


lunedì 23 marzo 2015

Se la stampa non è un'opinione: il punto di vista di Ugo Tramballi

Una conversazione con il giornalista del Sole 24 Ore , su informazione, cooperazione e società.







Spunti interessanti,e magari inaspettati, da questo  giornalista con la G maiuscola.

Ugo Tramballi "Ha iniziato la carriera di giornalista nel 1976 al Giornale di Montanelli; dal 1983 è stato inviato speciale in Medio Oriente, India e Africa e corrispondente di guerra in Libano, Iran, Iraq, Afghanistan e Angola. Tra il 1987 e il 1991 è stato corrispondente da Mosca. Dal 1991 è inviato ed editorialista di affari internazionali al Sole 24 Ore.È membro dell’Istituto affari internazionali di Roma, del Centro italiano per la pace in Medio Oriente di Milano, Media Leader del World Economic Forum." (da "Ilsole24ore.com) in diretta da Gerusalemme, la sua chiacchierata con La BisbEtika:


Qual è secondo lei il ruolo della stampa e dei mezzi di informazione nel riportare ciò che succede oltre i confini statali? Il rischio strumentalizzazione è dietro l’angolo, i titoloni spaventano il pubblico o danno semplicemente ai lettori quello che vogliono?
Il ruolo della stampa dovrebbe essere informare nel migliore dei modi possibile, ma non sempre è così: sia dentro che fuori i nostri confini. Ma in Italia, riguardo agli esteri, non penso tanto a una volontà di strumentalizzazione da parte di qualche centro di potere – a volte tuttavia accade - quanto a una via di mezzo fra il sensazionalismo e un modo di accontentare i lettori che, in generale, di esteri ne sanno ancora meno dei giornalisti. Scrivere per esempio la sciocchezza che l’Isis sta per arrivare a Roma, ha più effetto che tentare di spiegare quanto effettivamente il califfato sia una minaccia.
Spesso valutando gli avvenimenti sarebbe buona regola chiederci chi ci guadagna, quindi chi guadagna secondo lei da un’informazione a volte univoca?
Credo poco alle teorie della cospirazione o all’esistenza di un Grande Fratello: a volte è solo ignoranza o mediocrità di giornalisti ai quali piace sposare cause piuttosto che tentare di capire le ragioni degli uni e quelle degli altri in un conflitto.
L’ inviato di guerra, il corrispondente dall’estero: sono ancora ruoli necessari per un’informazione che al giorno d’oggi passa per la rete e la sua capillarità a portata di click?
L’inviato – che sia di guerra, di avvenimenti interni, di esteri o di mafia da Palermo – è una delle prime vittime del web. Chiunque può scrivere ciò che vuole da dove vuole; l’immediatezza della notizia trionfa sulla “slow news”, cioè sul tentativo di approfondire e ragionale. Il web ha molti pregi ma alcuni gravi difetti: uno di questi è la scomparsa della sana abitudine di verificare le fonti. Dare in fretta la notizia è ormai più importante che verificarne la veridicità.
Un’esperienza decennale nel raccontare il Mondo, anche in situazioni critiche, si è mai sentito davvero in pericolo?
Non mi piace rispondere a questa domanda che, stranamente, molti giovani mi fanno. Che mi trovi in pericolo o meno mentre seguo un avvenimento, è irrilevante. Non sono io la notizia: io seguo e racconto la notizia. Ma capisco che molti giornalisti, soprattutto i televisivi in zone di guerra, facciano più spettacolo che informazione, dando del nostro mestiere una falsa aurea di protagonismo. La cosa peggiore del nostro mestiere è quando un giornalista crede che la notizia sia lui che segue una notizia.
In tanti anni come corrispondente dall’estero, ha notato un cambiamento nelle tutele garantite dallo Stato a chi lavora in zone di rischio?
Non credo che lo Stato debba garantirmi delle tutele di qualsiasi genere. Se vado in una zona pericolosa, lo faccio per mia volontà, d’accordo con il mio giornale. Non ho diritto ad alcuna tutela pubblica, non sono un mutuato Inps.
Cooperanti, corrispondenti, dipendenti di aziende dislocate: si moltiplicano gli episodi che mettono a rischio la loro incolumità: dai rapimenti in Medioriente alle pressioni del Governo sui giornalisti in Cina: cosa rappresenta il rischio maggiore dal suo punto di vista?
Il rischio maggiore per un giornalista non è quando rischia la vita, per esempio in una zona di guerra: come ho detto prima è una sua scelta e non può pretendere che i combattenti tengano conto del suo “diritto” d’informare. Per i cooperanti e i dipendenti di aziende è un po’ diverso ma anche loro in genere sanno sin dall’inizio di andare a operare in zone rischiose. Il pericolo maggiore per un giornalista è quando governi e regimi tentano senza sparare di limitare il suo lavoro.
Dalla società civile e dalla politica queste figure professionali ricevono più spesso critiche e atteggiamenti astiosi, se non addirittura aggressivi, più che solidarietà e interesse: perchè? Dove sta la differenza fra i Marò e Greta e Vanessa?
Se posso dirlo, i due marò sono più vittime di quanto lo siano Greta e Vanessa. Latorre e Girone erano al lavoro, mandati in missione dal loro governo che doveva garantire un quadro legale internazionale al loro operato. Le due ragazze, con tutta la stima per i loro ideali, sono andate allo sbaraglio volontariamente e con molta ingenuità. Ci sono donne e uomini dello Stato che hanno rischiato la vita per tirarle fuori dalla Siria, della quale hanno dimostrato di non capire la profondità della tragedia.
Perché milioni di persone sono scese in piazza per la libertà di stampa di Charlie Hebdo mentre vengono accettate, anche dai governi legati da rapporti economici al gigante asiatico, le pressioni e i vincoli imposti ai giornalisti e ai loro collaboratori in Cina?
Se tu mia avessi chiesto cosa pensavo di Charlie Hebdo prima della tragedia di Parigi, ti avrei detto che quel giornale era mediocre e arrogante nella sua presunzione intellettuale di criticare e insultare chiunque. Ma a Parigi è avvenuta un’esecuzione, per questo ogni critica scompare di fronte alla tragedia e alla gravità dell’aggressione al diritto di opinione. Non è paragonabile con le pressioni che un giornalista può subire da un regime, per quanto repressivo. Il mondo è pieno di questi regimi e spesso i giornalisti subiscono pressioni anche nel mondo democratico.
Qual è il ruolo dell’informazione in questo schema? Portare verso il pubblico l’indifferenza della classe politica o viceversa? I media sono solo testimoni di queste dinamiche o anche fomentatori?

I titoli eccessivi di Libero, quelli per tutte le stagioni del Corriere della Sera, quelli marxisti del Manifesto o i titoli confindustriali del Sole 24 Ore, cercano tutti d'intercettare il loro lettore tipo. In qualche modo la libertà di stampa italiana consiste nell'avere tanti giornali di parte diversa. E' difficile trovare esempi di giornalismo anglosassone. Il quale non è assenza di opinioni ma, al contrario, la libertà di cambiare opinione a seconda della situazione e non mantenerla a seconda degli interessi dell'editore. Ovunque nel mondo democratico, la linea editoriale di un giornale tiene conto degli interessi del suo editore: succede anche al Financial Times piuttosto che al New York Times. Da noi un po' di più, al punto da essere percepiti più come strumento degli interessi degli editori che come strumento d'informazione. E' una delle ragioni delle scarse percentuali di diffusione dei giornali in Italia, da sempre. Ciononostante, anche da noi i giornali contribuiscono a formare l'opinione pubblica e l'interesse generale. Forse più di qualsiasi altro strumento.

In diretta da Trento, poco da aggiungere, se non un "chapeau" per una professionalità che abbiamo imparato a non aspettarci più.
Appuntamento alla prossima intervista della BisbEtika, questa volta con un accademico, speciale... a presto!