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lunedì 23 marzo 2015

Se la stampa non è un'opinione: il punto di vista di Ugo Tramballi

Una conversazione con il giornalista del Sole 24 Ore , su informazione, cooperazione e società.







Spunti interessanti,e magari inaspettati, da questo  giornalista con la G maiuscola.

Ugo Tramballi "Ha iniziato la carriera di giornalista nel 1976 al Giornale di Montanelli; dal 1983 è stato inviato speciale in Medio Oriente, India e Africa e corrispondente di guerra in Libano, Iran, Iraq, Afghanistan e Angola. Tra il 1987 e il 1991 è stato corrispondente da Mosca. Dal 1991 è inviato ed editorialista di affari internazionali al Sole 24 Ore.È membro dell’Istituto affari internazionali di Roma, del Centro italiano per la pace in Medio Oriente di Milano, Media Leader del World Economic Forum." (da "Ilsole24ore.com) in diretta da Gerusalemme, la sua chiacchierata con La BisbEtika:


Qual è secondo lei il ruolo della stampa e dei mezzi di informazione nel riportare ciò che succede oltre i confini statali? Il rischio strumentalizzazione è dietro l’angolo, i titoloni spaventano il pubblico o danno semplicemente ai lettori quello che vogliono?
Il ruolo della stampa dovrebbe essere informare nel migliore dei modi possibile, ma non sempre è così: sia dentro che fuori i nostri confini. Ma in Italia, riguardo agli esteri, non penso tanto a una volontà di strumentalizzazione da parte di qualche centro di potere – a volte tuttavia accade - quanto a una via di mezzo fra il sensazionalismo e un modo di accontentare i lettori che, in generale, di esteri ne sanno ancora meno dei giornalisti. Scrivere per esempio la sciocchezza che l’Isis sta per arrivare a Roma, ha più effetto che tentare di spiegare quanto effettivamente il califfato sia una minaccia.
Spesso valutando gli avvenimenti sarebbe buona regola chiederci chi ci guadagna, quindi chi guadagna secondo lei da un’informazione a volte univoca?
Credo poco alle teorie della cospirazione o all’esistenza di un Grande Fratello: a volte è solo ignoranza o mediocrità di giornalisti ai quali piace sposare cause piuttosto che tentare di capire le ragioni degli uni e quelle degli altri in un conflitto.
L’ inviato di guerra, il corrispondente dall’estero: sono ancora ruoli necessari per un’informazione che al giorno d’oggi passa per la rete e la sua capillarità a portata di click?
L’inviato – che sia di guerra, di avvenimenti interni, di esteri o di mafia da Palermo – è una delle prime vittime del web. Chiunque può scrivere ciò che vuole da dove vuole; l’immediatezza della notizia trionfa sulla “slow news”, cioè sul tentativo di approfondire e ragionale. Il web ha molti pregi ma alcuni gravi difetti: uno di questi è la scomparsa della sana abitudine di verificare le fonti. Dare in fretta la notizia è ormai più importante che verificarne la veridicità.
Un’esperienza decennale nel raccontare il Mondo, anche in situazioni critiche, si è mai sentito davvero in pericolo?
Non mi piace rispondere a questa domanda che, stranamente, molti giovani mi fanno. Che mi trovi in pericolo o meno mentre seguo un avvenimento, è irrilevante. Non sono io la notizia: io seguo e racconto la notizia. Ma capisco che molti giornalisti, soprattutto i televisivi in zone di guerra, facciano più spettacolo che informazione, dando del nostro mestiere una falsa aurea di protagonismo. La cosa peggiore del nostro mestiere è quando un giornalista crede che la notizia sia lui che segue una notizia.
In tanti anni come corrispondente dall’estero, ha notato un cambiamento nelle tutele garantite dallo Stato a chi lavora in zone di rischio?
Non credo che lo Stato debba garantirmi delle tutele di qualsiasi genere. Se vado in una zona pericolosa, lo faccio per mia volontà, d’accordo con il mio giornale. Non ho diritto ad alcuna tutela pubblica, non sono un mutuato Inps.
Cooperanti, corrispondenti, dipendenti di aziende dislocate: si moltiplicano gli episodi che mettono a rischio la loro incolumità: dai rapimenti in Medioriente alle pressioni del Governo sui giornalisti in Cina: cosa rappresenta il rischio maggiore dal suo punto di vista?
Il rischio maggiore per un giornalista non è quando rischia la vita, per esempio in una zona di guerra: come ho detto prima è una sua scelta e non può pretendere che i combattenti tengano conto del suo “diritto” d’informare. Per i cooperanti e i dipendenti di aziende è un po’ diverso ma anche loro in genere sanno sin dall’inizio di andare a operare in zone rischiose. Il pericolo maggiore per un giornalista è quando governi e regimi tentano senza sparare di limitare il suo lavoro.
Dalla società civile e dalla politica queste figure professionali ricevono più spesso critiche e atteggiamenti astiosi, se non addirittura aggressivi, più che solidarietà e interesse: perchè? Dove sta la differenza fra i Marò e Greta e Vanessa?
Se posso dirlo, i due marò sono più vittime di quanto lo siano Greta e Vanessa. Latorre e Girone erano al lavoro, mandati in missione dal loro governo che doveva garantire un quadro legale internazionale al loro operato. Le due ragazze, con tutta la stima per i loro ideali, sono andate allo sbaraglio volontariamente e con molta ingenuità. Ci sono donne e uomini dello Stato che hanno rischiato la vita per tirarle fuori dalla Siria, della quale hanno dimostrato di non capire la profondità della tragedia.
Perché milioni di persone sono scese in piazza per la libertà di stampa di Charlie Hebdo mentre vengono accettate, anche dai governi legati da rapporti economici al gigante asiatico, le pressioni e i vincoli imposti ai giornalisti e ai loro collaboratori in Cina?
Se tu mia avessi chiesto cosa pensavo di Charlie Hebdo prima della tragedia di Parigi, ti avrei detto che quel giornale era mediocre e arrogante nella sua presunzione intellettuale di criticare e insultare chiunque. Ma a Parigi è avvenuta un’esecuzione, per questo ogni critica scompare di fronte alla tragedia e alla gravità dell’aggressione al diritto di opinione. Non è paragonabile con le pressioni che un giornalista può subire da un regime, per quanto repressivo. Il mondo è pieno di questi regimi e spesso i giornalisti subiscono pressioni anche nel mondo democratico.
Qual è il ruolo dell’informazione in questo schema? Portare verso il pubblico l’indifferenza della classe politica o viceversa? I media sono solo testimoni di queste dinamiche o anche fomentatori?

I titoli eccessivi di Libero, quelli per tutte le stagioni del Corriere della Sera, quelli marxisti del Manifesto o i titoli confindustriali del Sole 24 Ore, cercano tutti d'intercettare il loro lettore tipo. In qualche modo la libertà di stampa italiana consiste nell'avere tanti giornali di parte diversa. E' difficile trovare esempi di giornalismo anglosassone. Il quale non è assenza di opinioni ma, al contrario, la libertà di cambiare opinione a seconda della situazione e non mantenerla a seconda degli interessi dell'editore. Ovunque nel mondo democratico, la linea editoriale di un giornale tiene conto degli interessi del suo editore: succede anche al Financial Times piuttosto che al New York Times. Da noi un po' di più, al punto da essere percepiti più come strumento degli interessi degli editori che come strumento d'informazione. E' una delle ragioni delle scarse percentuali di diffusione dei giornali in Italia, da sempre. Ciononostante, anche da noi i giornali contribuiscono a formare l'opinione pubblica e l'interesse generale. Forse più di qualsiasi altro strumento.

In diretta da Trento, poco da aggiungere, se non un "chapeau" per una professionalità che abbiamo imparato a non aspettarci più.
Appuntamento alla prossima intervista della BisbEtika, questa volta con un accademico, speciale... a presto!

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