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martedì 21 aprile 2015

Abitare l'ambiguità

Mauro Cereghini è il terzo intervistato eccellente di “operazione cooperazione”. Discutere con lui di sviluppo e cooperazione internazionale è stata una fonte di spunti e riflessione che sono felice di condividere con voi. Per esempio, a cosa pensate se leggete di “animatori di comunità”? Se pensate ad un villaggio turistico e al karaoke questa intervista vi interesserà. 

Cereghini attivista, ricercatore e formatore sui temi della mediazione e della cooperazione internazionale, in particolare nell’area balcanica, ha lavorato all’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace di Rovereto e alla Fondazione Alexander Langer di Bolzano, è stato direttore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso e della Cooperativa Unimondo. Attualmente è presidente del Centro per laFormazione alla Solidarietà Internazionale di Trento, organizzazione impegnata a migliorare la conoscenza e le abilità di chi è coinvolto nella cooperazione internazionale.
Cooperazione sviluppo e solidarietà, cosa significano?
Le parole sono importanti, è giusto fare attenzione, ma a volte sono un gioco e bisogna capire cosa si intende. In campo internazionale cooperazione internazionale e solidarietà internazionale sono sinonimi, che intendono una serie di cose. Tradizionalmente la cooperazione internazionale riguardava il rapporto con un altrove: politiche economiche, sanitarie, ambientali, e allo sviluppo. Si intendeva quella parte legata alle politiche del cosiddetto sviluppo. Per l’ambiguità si è cominciato a parlare di solidarietà per intendere la cooperazione no profit. In generale poi, se si parla di solidarietà come aiuto, io lo trovo un termine un po’ superato. Ci sono tentativi di riformulare il concetto, come interscambio fra realtà diversamente ricche, in una logica di interscambio più che di trasferimento.
Dal su punto di vista i progetti nati da realtà locali dei paesi in via di sviluppo, hanno maggiori possibilità di successo della cooperazione che “viene da fuori”?


Bisogna distinguere l’intervento di emergenza e la cooperazione continuativa. Nel primo caso l’aiuto esterno è vitale, ma il cambiamento in una prospettiva continuativa non possono che farlo attori locali, con risorse locali, che possono essere incentivate anche da fattori esterni. Posto che non sono un purista del “solo loro possono”: ogni comunità ha le proprie problematiche e malfattori. Soprattutto in un mondo attuale lì e qui sfumano. Si può benissimo avere un attore locale eterodiretto che è la risorsa del progetto, così come un attore esterno che può avere competenze utili. Sfumerei questo confine.  Non esiste l’idea di trasportare il cambiamento.
Chi sono dunque e che scopo nel lavoro dei cooperanti?
Esistono operatori umanitari (sul campo), cooperanti e tecnici, più presenti nell'immaginario così come ad esempio la figura del missionario. Tutte hanno delle peculiarità e le rispetto, il testimone e il professionista: hanno comunque caratteristiche positive e negative. Credo che una figura interessante da sviluppare sia quella degli “animatori di comunità”, di reti di interscambio, per così dire: persone e realtà che sappiano essere trasformatori sociali là e qui. Se una persona non si integra nelle dinamiche di cambiamento sociale di Trento difficilmente sarà in grado di farlo a Quito. Mi interessa ad esempio chi si lavora nel commercio equo e solidale internazionale e si impegna a conoscere i produttori con trasferte nei luoghi dove lavorano pur tenendo aperta la propria bottega, magari, a Trento. 
Si può fare cooperazione internazionale anche stando a casa propria quindi? 
Ci si deve muovere. E’ necessario per lavorare in questo settore. Ma bisogna restare legati a un luogo. Anche costruire relazioni di interscambio è cooperazione, quindi anche stare “a casa propria” può essere un modo per fare cooperazione in un certo senso. Magari tentando prima di scoprire quali parti di casa nostra sono già occupate dal mondo, cercando poi di costruire  uno scambio positivo con le risorse del proprio territorio e di quello altrui.

Molti fra quelli che lavorano in questo campo, affermano che la cooperazione non funziona quando tutto è regalato. C’è una cooperazione che funziona meglio di un’altra?
Se non siamo in situazioni di emergenza, quando solo l’aiuto concreto ed immediato salva. Sto parlando di emergenze vere, calamità e guerre, non emergenze come “l’emergenza immigrazione” che non lo è. Ma se usciamo dall’emergenza stretta è vero, gli aiuti uccidono, se intesi come solo donazione. Sono nocivi perché sono unilaterali: è indispensabile un legame che dia potere e responsabilità, di scelta di coinvolgimento, ad entrambe le parti. Il solo dono mantiene il potere in chi lo concede. Si crea dipendenza, superiorità, invasività.
Una cooperazione allo sviluppo che funziona dovrebbe mirare a rendere obsoleta se stessa. Stiamo andando in questa direzione?

La valutazione è diversa da Paese a Paese. Prima ancora che pensare alla dimensione materiale della cooperazione come succede in molte realtà, vorrei che si prestasse attenzione alle valutazioni. Che ci fossero pensieri prima di azioni e di soldi, pensieri di cambiamento. La cooperazione ha fatto la propria crescita culturale, per lo meno dichiara l’interesse per la partnership e l’ownership locale. Lo scarto fra il dire e il fare c’è. Io vedo contemporaneamente mondi fermi che ripetono l’uguale, che nominano ancora i paesi in via di sviluppo, nord e sud del mondo, e vedo approcci più legati alla realtà e ai dati di fatto. La direzione principale è quella dall’internazionalizzazione come si vede dal cambio di posizione di Brasile,  India e Cina, ad esempio.

E’ possibile spingere uno sviluppo che sia sostenibile? O al momento conta più spingere l’uscita dalle crisi umanitarie e sociali?

Intanto bisogna capire dov’è il perno della sostenibilità, capire l’equilibrio fra sostenibilità ambientale, sociale e culturale. Non ci sono progetti sostenibili o insostenibili tout court. Detto questo, certo bisogna assumere un’ottica di lungo periodo. In passato ci sono stati enormi esempi di progetti che per sostenere un aspetto ne hanno affossato un altro. In generale più che di ricette o di modelli trasferibili bisogna parlare di scoperte, riscoperte e unicità, territoriali e culturali. La chiave dello sviluppo resta ambigua, perché trasformazione significa inevitabilmente acquisire qualcosa e perdere altro. Ovvio che gli spot di sostenibilità, i marchi fair trade, equo e sostenibile, possono essere ormai inseriti in qualsiasi tipo di progetto. Bisogna vedere se è reale l’impegno. Sapendo che non c’è bianco o nero. Il commercio equo e solidale lo è? Siamo in un mondo di contraddizioni, la purezza, per fortuna, non esiste. Bisogna saper abitare l’ambiguità. Non si tratta di risolvere un’equazione già scritta ma di avviare progetti, di avvicinarsi all’equilibrio. In questo senso il cooperante non può essere il singolo, perché ci si deve confrontare con una realtà nel suo complesso: a volte è più importante il pensare a cosa si fa che il farlo. Bisogna creare una comunità di pensiero che si incontra, perché nessuno ha le ricette, e chi pensa di avere le ricette, mente.

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