Translate

giovedì 10 settembre 2015

Sarajevo val ben un pensiero.

Due mesi di assenza ingiustificata, o meglio, giustificata solo da un periodo di viaggi incontri così intenso da non lasciarmi il tempo per scriverne.

La prima delle mirabolanti avventure estive della Bisbetica, sono stati i Balcani.
Quei Balcani, terra d’oriente e d’occidente, quei Balcani vicini e lontani, quei Balcani ponte e muro, quei Balcani teatro di una delle più vergognose pagine della storia europea e mondiale degli ultimi vent’anni.
I Balcani che mi hanno emozionata, sedotta, commossa.

La Bosnia, così fiera e impegnata nel tenere il passo europeo senza perdere la propria identità, la Croazia, attraversata in moto, con i porticcioli turistici a fianco murales che a Split incitano ancora gli "Aiduchi".
Una realtà fitta densa, come se fosse tutto contratto, la montagna e il mare, le zone rurali e la città, il passato recente e quello antico, la modernità e la tradizione, il turismo e la guerra, la bellezza e l'orrore. Mostar, e soprattutto Sarajevo, mi sono rimaste nel cuore.

A Mostar la storia bosniaca recente si è raccontata per caso, per bocca di Edjin, un quarantenne che abitava già lì, nella stupenda città sul fiume Narenta, durante la guerra degli anni novanta che ha visto spaccarsi la secolare cultura multietnica bosniaca per le spinte separatiste sorbo/croate e i clamorosi fallimenti dell’Onu. Mi ha fermata mentre fotografavo un palazzo ancora sventrato dalla granate a pochi metri dalla via dei turisti, mentre una madre e un figlio rom frugavano in un cassonetto a dieci metri dalla bancarella dei selfie sticks. La pulizia etnica, la guerra voluta da pochi ma che ha sconfitto tutti, la sua versione della storia.

I cecchini che sparavano alle donne che andavano a prendere l'acqua, la città divisa in due dai bombardamenti, famiglie e amici messi su due lati diversi del fronte, e poi il fosforo bianco, le schegge di granate che lasciano cicatrici nella carne e nell'anima, l'inettitudine degli organismi internazionali, i gruppi di violenti che hanno cambiato il destino di nazioni intere.

Non c’è perdono nelle parole di Edjin, o meglio, c’è per i vicini e gli amici serbi, arruolati a volte contro la loro volontà nelle milizie, c’è per i cittadini croati, vittime anche loro di un leader spietato, ma non c’è perdono, o possibilità di ammenda, per l’Onu, la Nato, l’Unione Europea, i Paesi “occidentali” che sono rimasti a guardare, che hanno lasciato proseguire per anni una guerra che sarebbe potuta durare dieci giorni.

E Sarajevo... non credo che al mondo esista un'alta città con quell'anima. E' come se ti mettesse davanti alla storia in persona, questa città avvolta da fantasmi e profumi, da foreste e cimiteri: le sinagoghe fianco a fianco ai minareti, alle chiese ortodosse, ai campanili, le lapidi bianche islamiche mescolate alle tombe cristiane negli immensi cimiteri che circondano la città, i niquab e gli hotpants nelle vetrine, i buchi di proiettile nei muri dei fast food,i segni delle bombe fra i banchi del Markele, la biblioteca risorta dalle proprie ceneri come la Fenice.
E' una storia così lunga da rischiare di dimenticarne qualche pezzo, per scelta o per semplice oblio. E' allo stesso tempo teatro di guerre, sconfitte e sofferenze, come di speranza, e convivenza e solidarietà fra oriente e occidente, etnie, religioni.
Fra i profumi che escono dai caffè e dalle fumerie di Narghilè, si racconta piano piano, quasi svelandosi, giorno dopo giorno, timidamente.
Inat Kuca e la sua storia di resistenza, la biblioteca che non ha più paura, i mercati e i caffè, i musei e le birrerie, il quartier generale dei serbi sulla collina. Mi hanno raccontato tutti una parte di storia.
Un grande senso di impotenza e di ingiustizia mi ha pervasa dopo la visita al museo storico, l'unico che dedica una "mostra" all'assedio degli anni novanta (a parte la trappola per turisti all'uscita del tunnel della speranza). L’edificio, ancora crivellato dai colpi di mortaio, patisce un'evidente carenza di fondi in contrasto con uno spirito intraprendente. È difficile da trovare e in alcuni punti fatiscente, evidente prova di una colpevole disattenzione internazionale verso chi potrebbe raccontare una storia che punti il faro sui fallimenti dell'Onu e della comunità internazionale al completo.

Pochi giorni dopo, ho conosciuto un sacco di ragazze e ragazzi bosniaci, serbi, croati, kosovari, montenegrini, macedoni, che mi hanno dimostrato ancora una volta la coesione e la voglia di riscatto e giustizia delle nuove generazioni, ma questa è un’altra storia.

La storia che vorrei contribuire a far conoscere oggi, è quella dei Balcani, quella di Sarajevo, non solo la loro ferita più recente, ma tutta quella strada millenaria che li ha resi così unici e forti, così fieri e, finalmente, senza più paura.

Ma per conoscerla, per assaggiare il vero sapore di questo racconto, ancora una volta, non vi resta altro da fare che preparare uno zaino e partire.

2 commenti: