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giovedì 27 giugno 2013

Fiaba triste di una notte in Palestina

Quando ho imparato il mio nome, ho imparato a sperare.
Hadeel, il tubare della colomba, doveva essere il suono che mia madre sperava di sentire come sottofondo alle risa nelle giornate della mia infanzia.
Hadeel, più forte del gracchiare dei cingoli dei carri armati, più squillante dello stridere delle pale degli elicotteri che volano sopra le nostre teste come rapaci, più acuto del fischio delle granate che cadono dal cielo.
Il mio nome mi ha insegnato a credere, che le preghiere avrebbero avuto più forza delle granate, scivolando attraverso le labbra di mia madre come un miele denso, che non sa di fiori ma di coraggio e speranza.
Hadeel, perchè una guerra non può essere eterna, ma molto lunga, come il muro che squarcia il ventre alla mia terra di sabbia e sterpi.
Palestina, la terra dei Filistei, la terra degli Ebrei,la terra mia, di mia madre e dei mie fratelli, su cui ogni giorno poggiamo i piedi scalzi, che percorriamo a grandi passi col cuore in gola,con la notte in bocca, quando le scie della pioggia di ferro che inaridisce le nostre anime prendono il posto delle stelle.
“Hadeel” l'ho sentito volare fuori dalla bocca di mio fratello questa notte, con lo stesso rimbombo che tante volte ho sentito nella voce di mia madre quando mi arrampicavo su un albero troppo alto, camminavo su di un muretto troppo diroccato, correvo troppo vicina al filo spinato.
“Hadeel” non è così che ho immaginato il verso di una candida colomba,questo mi ferisce le orecchie più dei proiettili che colpiscono i calcinacci sopra il mio letto, rimbalza nello specchio negli occhi gelati di mio fratello che non si è ancora alzato per correre al riparo.
Vorrei che mi chiamasse ancora, vorrei che allungasse le braccia verso di me per volare via insieme, ma resta lì, a fissare la ferita che ha trasformato il muro di casa in una finestra spettrale da cui vedo i miei vicini correre come formiche, come topi assordati dalle urla di un falco che sta per piombare su di loro.
Hadeel. Lo sussurra lo spettro di mia madre che è comparso del buio del corridoio dove la luce scoppietta come una scintilla morente, mentre alza dal cuscino la bambola di pezza che ha preso il posto di mio fratello, il sorriso che si allarga coma una voragine fino alla tempia, l'aureola rossa sulla stoffa sgualcita della federa, reliquia della santità di chi muore a sei anni.
Non sento più niente.
Il freddo del dolore, il buio della paura, tocco il viso di mia madre per vedere se è vera, mi si bagnano le dita.
Guardo terrorizzata le mie mani fra i lampi dei mortai, non è sangue, solo un pezzetto di quella tempesta di lacrime che sta devastando le pianure tenere del volto di mia madre.
Non sento più niente.
Mentre corriamo fuori, per la strada, passo davanti al mio vicino schiacciato a terra del peso della fine con le gambe all'aria come una donna impudica.
Lo scricchiolare della sabbia battuta sotto le mie scarpe di pezza, la luce lontana del rifugio che fa da cornice al ciondolare ritmico della testa di mio fratello ad ogni passo di mia madre.
Ci rintaniamo, nemmeno topi, scarafaggi.
La terra trema, trema mia madre fra le mie braccia, tremo io mentre il fragore di una fine del mondo costante mi culla nel sonno.
E' una notte qualsiasi in Palestina.
All'alba pezzi di casa, pezzi di vite, fumano ai bordi delle strade, i cani gridano spaesati, ma mai forte quanto mogli, sorelle, figlie, madri.
Mia madre, che avvolge un fantoccio in una stola bianca. Ogni giro una preghiera, ogni nodo un singhiozzo, ogni sussulto un grido.
Lo sento scoppiare dai polmoni mentre con le dita mi aggrappo a un brandello di rete metallica, conficcato nel terreno, un pianto cupo e senza la speranza che ha battezzato me e tutti i miei fratelli.
Sbatto con le ginocchia sulla terra, la mia terra, perchè mi costi tutto questo?
Appoggio il viso al chador macchiato di mia madre e chiudo gli occhi.
E lo sento.

Hadeel. Il verso della colomba. Vola alto, sopra il fumo, sopra i pianti senza consolazione, più in alto del profilo del muro grigio schiacciato contro l'azzurro del cielo, il nostro cielo. Perchè ci costi tutto questo?
Vola verso Israele. Vola via, dal terrore, da una ferita aperta.
Vola via.
E lo vedo per un istante, mentre le penne bianche incrociano il sole: mio fratello, che vola via con lei, finalmente libero, finalmente al sicuro.
E alle mie orecchie arriva per l'ultima volta

“Hadeel.”

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